L’azienda in crisi ha smesso di pagare le buste e il lavoratore – che, per fortuna, ha perso quel timore reverenziale di un tempo – si trova davanti all’incertezza di come comportarsi: fare scrivere dall’avvocato, contattare il datore di lavoro attraverso i sindacati, parlare con i colleghi o con il superiore, fare una causa, un decreto ingiuntivo o un’istanza di fallimento? Quale di questi è il sistema migliore per difendersi concretamente? Premesso che ogni storia ha le sue particolarità, capita anche che il lavoratore venga mal consigliato: mal consigliato dal suo stesso orgoglio, dalla fretta o dalle persone che, invece, dovrebbero aiutarlo. Lo scopo di questo articolo è quindi di fornire una chiara e succinta panoramica di quelle che possono essere, per il dipendente, le scelte più convenienti onde recuperare le somme non riscosse. Prima di vedere le possibilità che si profilano, vorrei fare una domanda: chi mai, avendo sete, rinuncerebbe al bicchiere offertogli solo perché non è pieno fino all’orlo? Sempre che la sete sia effettiva (e non simulata), sarebbe da sciocchi rifiutare un po’ di acqua per averne di più. Questo banale esempio dovrebbe servire a molti lavoratori quando, sul banco delle trattative, sono di fronte alla scelta tra: – accettare un piano di pagamento rateizzato da parte dell’azienda in difficoltà; – fare causa e, poi, magari, presentare istanza di fallimento. Un esempio Mi spiego meglio con un esempio per come ce ne sono tanti. Il lavoratore si dimette e chiede il TFR all’azienda. L’azienda non ha i soldi per pagarlo. Il lavoratore allora decide di iniziare una vertenza legale. Le parti si incontrano per un trattativa e per tentare un accordo. L’azienda offre al lavoratore il pagamento dell’80% del TFR in rate mensili, tutte uguali, dilazionate in due anni. Il lavoratore può scegliere se accettare o fare causa. 1- Se accetta Le parti andranno alla Direzione Provinciale del Lavoro, sigleranno l’intesa che costituirà un titolo esecutivo. In questo modo, se il datore non rispetta gli impegni, il lavoratore ha un documento che gli consente di agire direttamente in esecuzione forzata, senza prima dover fare la causa. Entro due anni, il dipendente riceverà le somme, rinunciando a recuperare il 20% di ciò a cui ha diritto. 2- Se non accetta e decide di fare causa Il lavoratore dovrà andare dall’avvocato che probabilmente intraprenderà la via del decreto ingiuntivo. Per ottenere un decreto ingiuntivo, notificarlo e renderlo esecutivo bisogna mediamente attendere circa 4 mesi. Spesso l’azienda che abbia ancora qualcosa da perdere (e non sia già sull’orlo del fallimento) decide di fare opposizione al decreto ingiuntivo. Si tratta di un’opposizione mediamente formulata su motivi pretestuosi, solo per prendere tempo e che potrebbe contrastare l’efficacia dei decreti ingiuntivi che non siano provvisoriamente esecutivi. La prima udienza viene fissata nel giro di un anno (faccio l’esempio del tribunale di Cosenza, un normale tribunale di provincia). L’intero giudizio richiede in media circa tre/quattro anni (per il primo grado). È verosimile che il lavoratore vinca la causa. A questo punto, nella rara ipotesi che l’azienda paghi il dipendente una volta uscita la sentenza, quest’ultimo avrà ottenuto il pagamento del 100% dei propri crediti, ma nel giro di quattro anni e rimanendo comunque vincolato a pagare l’onorario all’avvocato. Più spesso però accade che l’azienda non paghi neanche dopo la sentenza. Si profila allora la necessità di agire in esecuzione forzata: una lunga e tortuosa via, senza alcun margine di certezza, che soprattutto si scontra con la possibilità che il datore di lavoro, nel frattempo, abbia svuotato l’azienda. Nel caso poi in cui l’impresa sia una S.r.l. o una S.p.a., è anche impossibile rivalersi contro i beni personali dell’imprenditore. Capita allora che il lavoratore, insoddisfatto, proceda con l’istanza di fallimento. Si cade, così, dalla padella alla brace. A parte i tempi biblici delle procedure concorsuali, il lavoratore potrebbe trovare insoddisfatti gran parte dei propri crediti quando l’azienda è priva di un patrimonio sufficientemente capiente. In questo caso, l’unica garanzia è quella offerta dal Fondo di solidarietà dell’INPS che coprirà il pagamento delle ultime tre mensilità non corrisposte e del TFR. A conti fatti, i lavoratori che hanno accettato l’accordo, pur avendo ottenuto solo l’80% delle somme cui avevano diritto, sono stati accontentati nel giro di due anni. Gli altri invece non hanno ottenuto nulla. È bene dunque che si ponderino (anche grazie al consiglio di un legale di fiducia) le vie da intraprendere. Quali sono queste vie? La strada più veloce, ma che nello stesso tempo garantisce un certo margine di formalità, è ovviamente quella della diffida scritta da inviare al datore di lavoro. Generalmente è meglio che sia redatta da un avvocato o da un consulente professionale (per es. consulente del lavoro). Nella diffida si accorderà, al datore di lavoro, un certo margine di tempo per onorare la pretesa (in genere non più di 15 giorni). Su un gradino superiore in termini di conflittualità c’è il tentativo di conciliazione facoltativo presso la DPL – Direzione Provinciale del Lavoro (o anche presso i sindacati). Il lavoratore, in questi casi, si rivolge alla DPL chiedendo che venga convocato l’imprenditore affinché si tenti una mediazione. In quella sede, si tenderà a trovare un accordo per evitare il giudizio in tribunale. Maggiore margine di offensiva ha la scelta di un tentativo di conciliazione presso la DPL in composizione monocratica. L’incontro è volto ad accertare la regolarizzazione del contratto di lavoro e il pagamento degli oneri contributivi. Se non si trova un accordo, un ispettore andrà in azienda a verificare che l’imprenditore non abbia violato la legge e, se non in regola, scattano sanzioni particolarmente onerose. Questa scelta è troppo incisiva per le aziende già in difficoltà: trovandosi a pagare le sanzioni, esse potrebbero non avere più la liquidità per soddisfare anche il lavoratore. C’è infine la carta della causa. E di questo abbiamo già parlato sopra. Insomma, il consiglio è di accantonare le questioni di principio o le inutili e rischiose speranze di “averla vinta”: spesso, infatti, con la giustizia, chi troppo vuole, nulla ottiene. È un controsenso, lo sappiamo bene. Ma “teoria” e “pratica” non sono mai andate tra loro d’accordo.
Avv. Dino Moretti (Ufficio Vertenze A.S.La COBAS)