RAPPRESENTANZA SINDACALE: L’accordo non vede coinvolti i sindacati non confederali, né prevede che lo siano in futuro. Trattandosi di regole che riguardano tutti i lavoratori, iscritti e non iscritti al sindacato, la questione non è di poco conto.

 

La lunga e pesante vacanza di regole nelle relazioni sindacali non consente una sottovalutazione dell’intesa a cui va, dunque, riconosciuta una qualche importanza.RAPPRESENTANZA SINDACALE1 Il suo contenuto non consente però neppure l’enfasi con cui è stato in generale salutato. Varrà la pena ricordare alcuni punti deboli che ne evidenziano i piedi d’argilla.

L’accordo riguarda una platea di aziende, quelle aderenti a Confindustria, che rappresentano una parte assai meno grande del passato delle realtà dove opera il lavoro dipendente, inoltre l’uscita da essa della Fiat ha determinato un vulnus non trascurabile nelle relazioni sindacali. Si dirà che questo e non altro era alla portata dei contraenti dell’accordo. Vero e non vero.

Questo limite di partenza avrebbe potuto essere forzato da un appello congiunto delle parti al legislatore affinché, con una legge, esso, nella sua autonomia, provvedesse a generalizzarne l’attuabilità. Se si ha presente l’opposizione ad una legge sulla rappresentanza che, sino ad ora, ne ha impedito il varo, si capisce bene quanto questo punto politico sia rilevante (anche ai fini della soluzione di casi Fiat).

L’accordo non vede coinvolti i sindacati non confederali, né prevede che lo siano in futuro. Trattandosi di regole che riguardano tutti i lavoratori, iscritti e non iscritti al sindacato, la questione non è di poco conto. La zoppia è significativa e rilevante anche per le dinamiche sociali del futuro nelle aziende.

C’è un punto dell’accordo che un po’ sorprende per la manifesta contraddizione che esso evidenzia. L’accordo non è onnicomprensivo, cioè non regola ex novo l’intera materia. Esso si pone in continuità con due precedenti accordi confederali, quello del 22 gennaio 2009 e quello del 16 novembre 2012, entrambi accordi separati ai quali la Cgil non aderì, mentre è in vigore l’articolo 8 della legge Sacconi che manomette e limita il contratto nazionale di lavoro a favore della contrattazione aziendale, di una contrattazione, nella crisi, spesso peggiorativa della condizione dei lavoratori.

Si può tradurre così lo stato dell’arte: è in atto un processo in cui convergono congiuntamente la legge, i contratti, le scelte politiche delle principali organizzazioni sociali, un processo che prevede la riduzione del peso del contratto nazionale e l’accrescimento del peso della contrattazione aziendale. Questo, dunque, dovrebbe essere il futuro delle relazioni sociali.

La contraddizione con l’accordo stipulato si evidenzia nel fatto, clamoroso, che esso regola il primo e lascia scoperto il secondo, quello che dovrebbe diventare centrale nella realtà del futuro. Ma, anche laddove si regola, non mancano le ombre. Non c’è bisogno di riassumere il cammino dell’esperienza sindacale, né il dibattito che l’ha accompagnato, per sapere che il referendum tra i lavoratori è l’unica forma certa per misurare la validazione dell’accordo sindacale, mentre certo non è, nell’accordo, il diritto al suo ricorso da parte di ogni e tutti i lavoratori.

È buona la norma che prevede che un sindacato che superi una certa soglia nel consenso tra i lavoratori abbia diritto ad essere presente al tavolo delle trattative, quand’anche non abbia firmato il contratto, ma non è bene che questo consenso venga verificato, e quindi agibile, solo “nell’ambito di applicazione del contratto”. E come fa a perseguirlo chi è escluso, in quanto non firmatario, dall’uso della delega sindacale per la riscossione della quota sindacale ai fini del tesseramento?

Si dovrebbe proseguire assai più approfonditamente nell’analisi di un accordo così impegnativo. Ma si può forse, per un primo sommario giudizio sull’accordo, fare ricorso ad un altro luogo comune: un bicchiere mezzo pieno e mezzo vuoto. Un accordo tutt’altro che storico. La risposta alla crisi della democrazia sindacale resta aperta come quella dell’autonomia del sindacato e del carattere del conflitto sociale.

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