La frequenza dei suicidi tra i detenuti è 20 volte superiore rispetto alla norma1
, mentre quella tra gli agenti penitenziari è 3 volte superiore alla norma e risulta anche la più elevata tra tutte le Forze dell’Ordine.
Di frequente il suicidio è legato a vicende personalissime, tuttavia un semplice studio comparativo ci fa ritenere che almeno i 2/3 dei casi sono correlati al “fattore ambientale”: non tanto per l’ambiente carcerario di per se stesso, quanto piuttosto per una condizione detentiva “al di fuori della legalità”.
Negli ultimi decenni le carceri italiane hanno vissuto una progressiva perdita di legalità, con l’intensificarsi del sovraffollamento e della “detenzione sociale” (tossicodipendenti, immigrati), con la diminuzione delle opportunità di lavoro interno, delle risorse economiche per il “trattamento dei detenuti”, del numero di personale penitenziario.
Angelo Antonio Aragosa, 48 anni è stato ritrovato impiccato la notte del 7 dicembre 2012 in una cella del carcere di Ariano Irpino. L’ennesimo suicidio di un detenuto, il 57esimo dall’inizio dell’anno, il 748esimo dal 2000 ad oggi. Ogni anno gli agenti di Polizia Penitenziaria (ed anche i compagni di cella) salvano oltre 1.000 detenuti da morte certa, quasi sempre per impiccagione.
Senza questi interventi provvidenziali, le carceri italiane (“specchio della civiltà del Paese”) sprofonderebbero a livelli da Terzo Mondo.
L’opinione pubblica purtroppo è assuefatta e la politica altrettanto: un detenuto che si toglie la vita non fa “notizia”, il fatto che in carcere il suicidio sia 20 volte più frequente rispetto al complesso della società italiana sembra assolutamente “normale” perché giustificato dalla “inevitabile sofferenza” della detenzione. Anche tra il Personale di Polizia Penitenziaria la frequenza dei suicidi è 3 volte superiore alla norma e negli ultimi 10 anni quasi 100 poliziotti si sono uccisi.
Ma tutto questo è davvero “normale” ed “inevitabile”?
In 40 anni la popolazione detenuta è pressoché raddoppiata, mentre la capienza delle carceri è aumentata soltanto di 10mila posti. Le misure alternative (introdotte nel 1975-86) non hanno mai superato numericamente la
detenzione in carcere: negli Stati Uniti, ma anche nella maggior parte dei Paesi Europei, il numero dei condannati in misura alternativa è doppio rispetto al numero dei detenuti, mentre in Italia abbiamo 67.000 detenuti e 20.000 condannati in misura alternativa.
Le celle “singole”, dimensionate ancora in base al Regolamento di Igiene Edilizia delle Strutture ad Uso Collettivo (anno 1947!), misurano 8mq + 4 di bagno annesso, ma oggi sono occupate da 2 o anche 3 persone, il che ha comportato condanne all’Italia da parte della Corte dei Diritti Umani di Strasburgo.
I condannati all’ergastolo hanno diritto a trascorrere la notte in una cella singola (art. 22 Codice Penale – Isolamento notturno), ma questo è impossibile per mancanza di spazi. Il lavoro nelle carceri, obbligatorio per i condannati (art. 20 Legge 354/75. Ordinamento
Penitenziario), in realtà è una rara eccezione: a fronte di 38.000 detenuti con pena “definitiva” sono poche migliaia quelli effettivamente occupati.
La Riforma della Medicina Penitenziaria (iniziata nel 1999 e tuttora in corso…), ha determinato il passaggio di competenze dal Ministero della Giustizia a quello della Sanità, ma in assenza di investimenti economici sufficienti da parte delle Aziende Sanitarie Locali ha di fatto peggiorato i livelli di assistenza per i detenuti ammalati (salvo poche lodevoli eccezioni).
Sul fronte degli Operatori Penitenziari, anch’essi quotidianamente immersi in questo “bagno di illegalità”, anch’essi frequentemente vittime di suicidio, non si sono messe in campo politiche di “benessere organizzativo”, sempre per mancanza di risorse, ma anche per mancanza di adeguata
cultura manageriale di chi pianifica le politiche penali.
Con questo quadro è facile concludere che i detenuti si uccidono a centinaia (e tentano di uccidersi a migliaia) in primo luogo perché percepiscono di non essere più portatori di alcun diritto: privati della dignità e della decenza, trascorrono la propria pena immersi in un “nulla” senza fine.