Bangladesh,le proteste degli operai del tessile vanno avanti da settimane, innescate dal crollo del Rana Plaza, l’edificio che ospitava cinque fabbriche di abbigliamento per l’export (New Weave Bottoms, New Weave Style, Phantom Apparels, Phantom Tac Bangladesh Ltd ed Ethertex Textiles), il 24 aprile 2013, in cui 1127 persone sono state uccise e circa 2500 sono rimaste ferite, molte delle quali gravemente. Dopo Bhopal, in India, si tratta della più grave strage sul lavoro, che ha parzialmente riacceso i riflettori sulle condizioni di lavoro nelle fabbriche, soprattutto quelle che producono per l’export, dei paesi a basso reddito.
Il proprietario del Rana Plaza, il sindaco di Savar, la zona dove si trovava l’edificio, e altre otto persone, tra proprietari e direttori di fabbriche di abbigliamento e ingegneri, sono stati arrestati nel corso delle indagini. Dal rapporto preliminare di una commissione d’inchiesta è emerso che l’edificio era stato costruito su un acquitrino interrato senza le dovute precauzioni; e che alcuni grossi generatori installati ai piani alti avrebbero provocato delle vibrazioni compromettendo la stabilità strutturale. Il proprietario dell’edificio ha inoltre aggiunto alla struttura, illegalmente, delle pavimentazioni e ha permesso alle aziende di installare attrezzature pesanti che l’edificio non poteva supportare, non essendo stato progettato per questo. Il peso che i piani dovevano sorreggere era sei volte superiore a quello previsto, secondo un esame fatto dall’Asian Disaster Preparedness Center, e nei giorni prima del crollo si erano create enormi crepe sui muri. Gli operai le avevano viste e segnalate. Ciononostante, erano stati costretti a riprendere il lavoro.
Subito dopo il disastro, in Bangladesh la popolazione è scesa per strada per chiedere rispetto e migliori condizioni di lavoro e di vita. Contemporaneamente, è montata una campagna internazionale su iniziativa di IndustriAll e UNI Global Union, le federazioni sindacali internazionali dei lavoratori dei settori industriali e dei servizi, le organizzazioni non governative Clean Clothes Campaign (CCC), Workers Rights Consortium, International Labor Rights Forum, (ILRF), United Students Against Sweatshops (USAS), Maquila Solidarity Network (MSN), War on Want, People and Planet, Some of Us, Change.org, Credo Action, Avaaz e Causes, con il coordinamento dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro (OIL) e il sostegno di altri organismi governativi, che hanno insieme lanciato una petizione per chiedere azioni concrete da parte dei marchi implicati.
La pressione internazionale che si è sviluppata ha portato il 15 maggio alla sottoscrizione di un accordo sugli incendi e la sicurezza degli edifici in Bangladesh (Accord on Fire and Building Safety in Bangladesh), ovvero un protocollo di durata quinquennale con molte delle più grandi firme di abbigliamento occidentali.
Quest’accordo mette insieme complessivamente 31 aziende, che si servono direttamente o indirettamente di più di 1.000 fabbriche in Bangladesh, tra cui la svedese H&M, che è il più grande acquirente di capi di abbigliamento dal Bangladesh, l’olandese C & A, Inditex, proprietario spagnolo della catena di abbigliamento Zara, due rivenditori britannici, cioè Primark e Tesco, il rivenditore tedesco Tchibo, Hess Natur, El Cortes Ingles, Mango, Marks & Spencer, Stockmann, Abercrombie & Fitch e N Brown Group. Inoltre, l’americana PVH Corporation – la società madre di Calvin Klein, Tommy Hilfiger e Izod – ha accettato di aggiornare un analogo accordo già siglato nel 2012. Gap, che stava per firmare il testo dello scorso anno, alla fine si è rifiutato, adducendo preoccupazioni per le implicazioni in termini di responsabilità giuridica.
Anche Benetton, uno degli ultimi clienti della New Wave Style, ha alla fine aderito all’accordo, messa alle strette dalla forte pressione esercitata a livello internazionale, in forza delle prove emerse dalle macerie sui suoi rapporti con i fornitori che si avvalevano di quelle produzioni attraverso intermediari.
In base all’intesa le imprese si impegnano a intervenire finanziariamente per il miglioramento della sicurezza delle fabbriche di abbigliamento in Bangladesh, dando accesso a ispezioni indipendenti in fabbrica e facendosi carico degli adempimenti derivanti, a partire dalla messa in sicurezza degli stabili. I lavoratori hanno il diritto di rifiutare il lavoro pericoloso, conformemente a quanto previsto dalla Convenzione OIL n.155.
L’accordo impegna le committenti a interrompere i rapporti con le imprese che rifiutino di fare controlli e migliorare sulla sicurezza.
Il Bangladesh è uno dei più grandi esportatori mondiali di abbigliamento e paga anche uno dei salari mensili più bassi al mondo, intorno a 38 dollari. I bassi salari e la mancanza di norme di tutela del lavoro attraggono miliardi di dollari di ordini da rivenditori e marchi di abbigliamento occidentali. Quasi tutti i vestiti prodotti in Bangladesh sono esportati: il settore dell’abbigliamento ha rappresentato nel 2012 l’80 % delle esportazioni nazionali, con 20 miliardi di dollari, il 25 % in più del 2010. Nel 2010 le fabbriche di vestiti nel paese erano cinquemila, solo la Cina ne aveva di più.
Per Scott Nova, dell’associazione statunitense Workers’ Rights Consortium, la spesa per rendere gli stabilimenti in Bangladesh più sicuri (cioè con uscite di sicurezza e antincendio, luci di emergenza, impianti elettrici a norma) sarebbe di tre miliardi di dollari. Cioè 8 centesimi per ogni capo d’abbigliamento prodotto. Per le grandi aziende, che in media hanno il cinque per cento della loro produzione in Bangladesh, si tratterebbe di rinunciare a circa lo 0,4 per cento dei ricavi totali. E chi compra una maglietta si troverebbe a pagare un paio di centesimi in più.
E’ del 13 maggio la decisione del Governo di Dhaka di riconoscere la libertà di organizzazione sindacale ai 3,6 milioni di lavoratori tessili del paese, che finora dovevano passare dal permesso dei proprietari delle fabbriche. Questa novità, contenuta in una proposta di legge che verrà esaminata dal Parlamento il prossimo giugno, fa seguito alle sollecitazioni dell’OIL e di altre autorità internazionali a intervenire tempestivamente introducendo maggiori controlli e modifiche legislative. Tra le altre cose, la proposta di legge prevede la registrazione dell’outsourcing; l’obbligo dell’assicurazione di gruppo per i lavoratori delle aziende con più di cento dipendenti e, in caso di morte di un dipendente, il datore di lavoro dovrà occuparsi di incassare l’indennizzo e consegnarlo ai familiari del deceduto; la spesa per la realizzazione di uno stabilimento dovrà essere adeguata al progetto e nelle aziende di export dovranno essere costituiti dei fondi previdenziali.
Si è decisa la costituzione di un team di controllo su edifici e laboratori che porterà alla chiusura di quelli non a norma. Intanto sono state chiuse circa duecento fabbriche e sono già partite alcune campagne di boicottaggio contro diversi marchi, su iniziativa di organizzazioni di consumatori, anche in Italia.
L’OIL ha messo in guardia da un boicottaggio dei prodotti del Bangladesh dopo il crollo del Rana Plaza. “Se i consumatori smettono di comprare il Made in Bangladesh, il risultato sarebbe un calo degli affari e dell’export, con migliaia di donne che si ritroverebbero disoccupate. Questo non è un miglioramento”, ha affermato Gilbert Houngbo, direttore generale aggiunto dell’OIL. “Ma anche lo status quo non è accettabile ed è per questo che dobbiamo continuare a fare pressione”, affinché la situazione cambi, ha aggiunto Houngbo, che ha guidato una missione di alto livello dell’OIL in Bangladesh a inizio maggio. “Credo che dopo la tragedia del Rana Plaza, molti Paesi dovranno rivedere il modo di attrarre gli investimenti stranieri”, ha aggiunto. “Il modello di business deve cambiare” e “i costi bassi non devono essere perseguiti a scapito della vita delle persone e della loro sicurezza”. Dopo la tragedia, in Bangladesh sembra profilarsi una certa volontà di voltare pagina e il “nostro appello è perchè questo si traduca in azione e perché questo accada in fretta”, ha detto Houngbo.
Il Governo francese, su iniziativa del Ministro del commercio estero, M.me Nicole Bricq, intanto ha convocato il PCN (punto di contatto nazionale per l’applicazione delle Linee Guida OCSE sulle Multinazionali), che riunisce sindacati, imprese e amministrazione, affinchè intervengano nel caso di non rispetto dei principi dell’OCSE, soprattutto con riferimento alle condizioni di lavoro. In particolare, ha chiesto che vengano effettuate audizioni di imprese coinvolte, organizzazioni non governative e rappresentanti dell’OIL, per poi formulare proposte concrete che facciano fare dei passi in avanti sul terreno dell’osservanza delle norme sociali ed ambientali nel commercio internazionale.