Il ricorso del premier Alexis Tsipras al referendum popolare per chiedere al popolo se è disposto ad accettare i nuovi e inutili sacrifici che il FMI guidato Christine Lagar è stato un atto di democrazia diretta. Il referendum ha riconsegnato a un popolo la scelta del proprio futuro e forse non è un caso che ciò avvenga per volontà di Atene, la patria della democrazia, nella cui Agorà c’è la più antica macchina di pietra con la quale venivano estratti a sorte i 500 membri della Bulè, senza distinzione di nascita e censo (Clistene, 508 a.C.).
La storia insegna che nessun accordo o alleanza è per sempre e che accanirsi contro un popolo provoca inevitabilmente una reazione, spesso violenta.
La questione se piegarsi o meno alla nuova manovra della Troika, dopo cinque anni di lacrime e sangue in cui l’austerità imposta ha fatto collassare tutti gli indicatori economici generali (debito, PIL, occupazione, potere d’acquisto, etc.) e trasformato una crisi economica in una umanitaria, richiede un’analisi e una risposta economica.
Le Olimpiadi, proviamo a raccontare una storia diversa
Il punto di svolta sono le Olimpiadi del 2004. Atene ottenne l’organizzazione delle XXVIII Olimpiadi moderne battendo Roma al ballottaggio (66 a 41). L’assegnazione delle Olimpiadi doveva essere un vero e proprio risarcimento per non aver fatto svolgere ad Atene i Giochi del Centenario (1996), che invece furono tenuti ad Atlanta (USA), sede della Coca-Cola.
Il governo di Nuova Democrazia di Costas Karamanlis, insediatosi nel marzo di quell’anno, aveva salutato le Olimpiadi come l’occasione per realizzare le tanto attese riforme economiche e rilanciare l’economia ellenica, mentre Gianna Angelopoulos, capo del Comitato Organizzatore, venne festeggiata come un’eroina dopo la vittoria del ballottaggio su Roma.
La realtà, come anche i successivi Giochi Olimpici dimostrarono, si rivelò ben diversa dai sogni. La Grecia impegnò 15 miliardi di euro per allestire i Giochi, quando il suo PIL era di 193 miliardi (7,7%): troppi anche per un’economia che cresceva al 4% annuo. Per avere un termine di paragone, è come se l’Italia avesse deciso di investire in quei Giochi 113 miliardi di allora. Le Olimpiadi si dimostrarono un flop da tutti punti di vista, e i 15 miliardi di euro invece di un buon investimento si trasformarono in un sunk cost e il buco nel bilancio dello stato divenne incolmabile.
La Grecia entrò nell’eurozona nel 2001, adottando una conversione di 1 euro per 340,7 dracme, dichiarando che il rapporto deficit pubblico/PIL era del 2%, mentre in realtà viaggiava al 3,7%. Quindi, è vero che il governo socialista aveva mentito, ma è altrettanto vero che tutti i funzionari di Bruxelles e della BCE conoscevano questa verità. Inoltre, il quotidiano Le Monde un mese dopo la fine delle Olimpiadi pubblicava il famoso rapporto in cui denunciava lo stato reale dei conti pubblici greci, affermando che il rapporto deficit/PIL aveva raggiunto il 4,7% e non l’1,2%, come affermato dal governo Karamanlis.
Il debito greco
Tutti i titoli del debito pubblico di un qualsiasi Paese sono delle attività rischiose. Così come tutte le attività finanziarie, anche i soldi che oggi depositiamo in un conto corrente bancario, sono rischiose: potremmo non riscuotere il pagamento degli interessi, ma anche perdere in parte o tutto il capitale. Chi sottoscrisse i titoli del debito pubblico greco – si legga le banche francesi e tedesche – perché fornivano interessi molto più elevati della media dell’UE, sapeva benissimo che questo premio al rischio remunerava appunto la maggiore probabilità che la Grecia potesse non onorare i debiti, o no? Se queste nozioni s’insegnano al primo anno di economia, potevano ignorarle i super specializzati e strapagati tecnici delle banche? Ovviamente no.