Salari, rendite e profitti: quale trend?

La parola “crisi”, largamente impiegata da politici e giornalisti, è fuorviante per almeno due motivi: perché non si tratta di un disastro naturale (come un terremoto) e perché colpisce i salariati, non i profitti e le rendite parassitarie. Perciò la classe dominante lucra nella “crisi” a danno della classe dominata (a reddito fisso). Ecco due esempi di questo trend inverso. Il primo riguarda gli USA di Obama, il secondo l’Italia.obnam

“USA con Obama, corporation più ricche, ma gli stipendi calano”. Sono le corporation che hanno finanziato la campagna elettorale di Obama. “La forbice tra i profitti delle industrie e le retribuzioni non è mai stata così ampia. E più le aziende guadagnano, meno investono. Anzi, tagliano posti di lavoro e guadagnano in borsa. In più gli americani devono fare i conti con i tagli a sanità, edilizia popolare e assistenza ai disabili”. Una prova che la “crisi” è un affare per le corporation, che intanto di lamentano, come le confindustria in Italia. “Dalla fine del 2008 – ha spiegato al New York Times Dean Maki, capo economista per gli Usa di Barclays – gli utili delle imprese sono aumentati al ritmo del 20,1% ogni anno, mentre il reddito disponibile non è andato oltre l’1,4%, al netto dell’inflazione”. Non solo: più le aziende guadagnano, meno investono e meno assumono. Anzi, tagliano posti di lavoro e guadagnano in borsa. Dal 2008, anno in cui Obama arrivò al governo, dicono i dati del GDP (il Pil USA) riportati dell’agenzia Bloomberg.com – gli utili delle multinazionali sono cresciuti del 171%, più di quanto sia mai avvenuto sotto ogni suo predecessore a partire dalla Seconda guerra mondiale: il doppio di quanto guadagnato sotto Ronald Reagan e il 50% in più di quanto fossero riuscite a totalizzare con il boom di Internet negli anni ’90. Un crescendo trionfale che ha toccato il proprio apice lo scorso anno: il 2012 è stato da record, con 1,75 trilioni di dollari incassati solo tra settembre e dicembre (+18,6% rispetto al 2011), il risultato migliore dal 1950. Man mano, però, che le aziende si sono arricchite, gli americani sono diventati sempre più poveri.

Nel 2012, ha calcolato Cnn Money, le retribuzioni hanno toccato il loro minimo storico: nel 2012 i salari hanno rappresentato il 43,5% del GDP, quando nel 2011 ne costituivano il 49%. “Non c’è mai stato negli ultimi 60 anni – chiosa Maki – un periodo in cui questo trend è stato così pronunciato”. La parola chiave è sempre la stessa: crisi. “Finora, in questo inizio di ripresa – ha spiegato al Nyt Ethan Harris, tra i responsabili del board Global Economics di Bank of America – il settore delle corporate è quello che è gode di maggior salute nell’economia statunitense. E finché il mercato del lavoro non si riprenderà, i loro guadagni continueranno ad aumentare”. Ma a questo boom di introiti non corrispondono investimenti in grado di far crescere l’occupazione. I dati ufficiali saranno noti presto: gli analisti si attendono un tasso di disoccupazione stabile al 7,9%. Questo perché le aziende non hanno remore a licenziare. Un caso su tutti, quello della United Technologies. La conglomerata, una delle 30 companies del Dow Jones, ha visto crescere il proprio fatturato dai 42,7 miliardi del 2005 ai 57,7 del 2012. Non solo in questi anni la sua forza lavoro è rimasta la stessa (218.300 mila dipendenti), ma l’azienda ha già annunciato di voler tagliare altri 3.000 dipendenti, dopo i 4.000 licenziati nel 2012. Il tentativo di mantenere elevati i margini di guadagno non conosce soste. Non è un caso che United Technologies abbia varato l’ultima ondata di licenziamenti il mese scorso, 4 giorni dopo che il suo titolo aveva toccato il record di 90 dollari in Borsa.

Gli sforzi fatti dalla Federal Reserve per tenere bassi i tassi d’interesse, stimolare l’economia e incoraggiare gli investitori hanno fatto sì che Wall Street stia premiando le multinazionali, grazie anche alla crescita dei mercati asiatici e ad un’Europa più stabile: nei giorni scorsi il Dow Jones, l’indice dei 30 titoli principali, è volato a 14.207,94 punti, quota record dal punto massimo di 14.164,53 fatto segnare prima della grande crisi, il 9 ottobre del 2007. Un rally ‘Made in Fed’ con la complicità proprio dei profitti societari, migliori delle attese. Dal marzo 2009, quando ha toccato il minimo storico a 6.547,05 punti, il Dow Jones è più che raddoppiato, guadagnando oltre 7.500 punti. Così lì dove le industrie si arricchiscono, gli americani vedono peggiorare le loro condizioni: oltre che con gli stipendi che non crescono, dovranno fare i conti con gli 85 miliardi di tagli previsti, perché ad essere tagliati saranno in primo luogo i programmi di assistenza alle fasce deboli. Secondo il piano presentato dal presidente della Camera dei Rappresentanti, John Boenher, all’Office of Management and Budget, sotto la scure finiranno la sanità (200 i milioni tolti soltanto all’ObamaCare), l’edilizia popolare, i fondi stanziati per le emergenze naturali e l’istruzione: solo all’assistenza agli studenti disabili verranno sottratti 633 milioni. Dunque per i ceti dominanti la “crisi” è un grosso affare, che consente licenziamenti, precarietà lavorativa, ricatti occupazionali, e un crescente “esercito di riserva” di manodopera.

Ovviamente questo fenomeno non riguarda solo gli USA, ma ogni Paese capitalistico, in particolare della UE. Per l’Italia l’ingiustizia è ancora più grave, per una serie di motivi: salari inferiori alla media UE con la più alta tassazione, la più alta evasione fiscale e la più elevata fuga di capitali, il più elevato rapporto euro/lira. Buste paga più pesanti non solo in Gran Bretagna, Stati Uniti, Germania, Francia, ma anche Grecia e Spagna. È quanto risulta dal rapporto OCSE sulla tassazione dei salari, aggiornato al 2008 e appena pubblicato. La classifica riguarda il salario netto annuale di un lavoratore senza carichi di famiglia. È calcolato in dollari a parità di potere d’acquisto. Gli italiani guadagnano mediamente il 17% in meno della media OCSE. Salari italiani penalizzati anche se il raffronto viene fatto con la UE a 15 (27.793 di media) e con la UE a 19 (24.552).

Uno studio della IRES-CGIL (questi dati si trovano a fatica) ci fornisce i numeri di queste dinamiche devastanti. In Italia, la caduta del potere d’acquisto per abitante risulta già molto evidente prima del 2009: rispetto al “picco” del III trimestre 2006 la flessione del reddito delle famiglie italiane in termini reali supera il 6%, che corrisponde ad oltre 1.100 euro annui. Contemporaneamente, il rapporto tra debito (mutui, credito al consumo, etc.) e reddito medio lordo delle famiglie ha raggiunto il 60% (circa 27 punti in più dal 2001 al 2009 e 5 punti nell’ultimo anno). Ma di quali famiglie? Il confronto tra l’andamento del potere d’acquisto del reddito disponibile familiare tra il 2002 e il 2010, secondo le elaborazioni e le stime IRES, rileva una perdita di circa –3.118 euro nelle famiglie di operai e impiegati, contro un guadagno di 5.940 euro per professionisti e imprenditori.

Secondo gli economisti, principale causa – e al tempo stesso conseguenza della crisi – è proprio la caduta della quota distributiva del lavoro sul reddito nazionale, in Italia come in tutti gli altri paesi industrializzati. Anche i dati sulla dinamica dei profitti delle maggiori imprese industriali italiane (campione Mediobanca) indicano che dal 1995 al 2008 i profitti netti sono cresciuti di circa il 75,4% e, al contempo, dal 1990 a oggi, si registra una crescita dei redditi da capitale (rendite) pari a oltre l’87%; mentre i salari netti sono sotto il valore reale del 2000. Il problema, però, risiede nel fatto che l’andamento della quota di investimenti in rapporto ai profitti, dell’intera economia, negli ultimi trent’anni, ha segnato una caduta del 38,7%. 

Il problema, quindi, insieme alla perdita registrata dai salari netti e all’aumento delle disuguaglianze, sono gli investimenti mancati e la produttività perduta. La produttività reale delle imprese italiane è cresciuta dal 1995 di 1,8 punti percentuali, mentre quella delle imprese di Francia, Regno Unito e Germania è cresciuta dai 25 e i 32 punti.

L’altro problema è la fuga dei capitali e l’evasione fiscale. Dal 2000 al 2008 calarono festosi in Germania, Russia, Arabia saudita, Asia, Spagna, Grecia, Irlanda, Italia. Compravano e spingevano in su i prezzi di case, terreni, borse, titoli di stato, mentre gli spread calavano. Noi con i soldi compravamo merci e beni, facendo salire produzione, occupazione, profitti e salari. Nel 2010 i capitali hanno iniziato a fuggire dalla Grecia, dall’Irlanda, dal Portogallo, dalla Spagna e dall’Italia. In più profitti e redditi “indipendenti” sfuggono al fisco, per cui pagano le tasse solo i redditi dipendenti.

In definitiva ciò che chiamano “crisi” altro non è che un gigantesco trasferimento di danaro e di diritti vitali dal lavoro dipendente a profitti e rendite finanziarie e patrimoniali. Perciò un “esproprio padronale coatto”, legalizzato e permanente. Una analisi che Karl Marx aveva fatto nel 1865 nel saggio “Salari, prezzi e profitti”.

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