Il crollo del Ponte Morandi a Genova è una strage italiana. “Cedimento strutturale“: questa la prima e forse l’unica possibile ipotesi dietro la sciagura che avrebbe provocato decine di vittime nel quartiere Sampierdarena. Auto volate giù da una cinquantina di metri, sfracellate al suolo in una zona (fortunatamente) adibita a parcheggi e magazzini e schiacciate dalla macerie. Una fine tremenda e senza motivazioni plausibili che non siano l’incuria e la cialtroneria criminale, durata decenni.
Ci sarà tempo per imbastire i processi, ma una cosa è sicura: a far venir giù i quasi 200 metri del viadotto Polcevera non sono state certo le piogge, violente, di queste ore. Il dito è puntato sui lavori incessanti che interessano da anni il “ponte di Brooklyn” come i genovesi chiamavano con un misto di ironia e orgoglio l’arteria che porta la A10 nel cuore della città. Fino a pochi giorni fa il primo tratto, quello rimasto in piedi, era chiuso per “manutenzione e consolidamento”. Sono stati diversi gli interventi su una infrastruttura datata (terminata a fine anni 60) e trafficatissima, visto che si tratta della via d’accesso principale da Nord (chi scende in Riviera da Milano, per esempio, passa da lì) e cruciale anche per il porto e in direzione Francia.
Un colpo al cuore di Genova che porterà conseguenze sanguinose per le vittime e i loro parenti, ma anche per il turismo, l’economia e la viabilità. Chi conosce la città, parla di mesi durissimi in arrivo, traffico bloccato, caos nei popolosi quartieri limitrofi. Dettagli? No, perché al di là della valenza emotiva gli amministratori di uno Stato devono riflettere, cinicamente, sullo stato delle cose: può un Paese moderno, del “Primo mondo”, che si dice proiettato nel futuro, disintegrarsi in pochi secondi senza un motivo vero?