Il Primo Maggio è la giornata internazionale dei lavoratori. E’ la Seconda Internazionale che nel 1889 elegge questa data simbolo come giornata internazionale di mobilitazione per la riduzione dell’orario di lavoro.
Le radici della lotta per la riduzione della giornata lavorativa, però, affondano ancor più lontano.
Il sistema di produzione capitalistico si afferma in Gran Bretagna a fine 1700, un secolo prima della cosiddetta “rivoluzione industriale”. I trasporti e la grande industria si sviluppano nei primi decenni del 1800 e nelle città si ha un aumento della popolazione di dieci volte, grazie soprattutto al processo di disgregazione contadina. In quegli anni le condizioni della classe operaia peggiorano e l’aumento dell’orario di lavoro costringe l’impiego nelle fabbriche di donne e bambini.
Se da un lato queste condizioni attirano l’attenzione di alcuni esponenti della vecchia e nuova classe dominante (detti “filantropi”) i quali cercano di ottenere leggi che contengano i problemi, dall’altro causano la comparsa dei primi pionieri del socialismo moderno, tra cui Robert Owen (utopista). Egli pensa sia d’obbligo cambiare il sistema produttivo partendo dalla fabbrica. Ma non si limita a pensare: sperimenta. E’ proprietario di una fabbrica tessile di New Lanark, in Scozia, quando decide di abbassare l’orario di lavoro da quindici a dieci ore e mezzo, aumenta i salari, mette a disposizione servizi sociali per gli operai e dimostra che comunque i profitti della fabbrica aumentano. Il movimento cartista appoggiò la lotta per la riduzione dell’orario di lavoro a dieci ore nei vent’anni seguenti.
Il movimento operaio è così forte e deciso in Gran Bretagna che negli anni Quaranta le frazioni industriali e fondiarie della borghesia se ne contendono l’appoggio. La lotta per le dieci ore ha termine, non a caso, nel 1848. La classe operaia conquista una vittoria fondamentale che è al tempo stesso un precedente storico ed un punto di partenza per la conquista delle otto ore del 1919.
In Australia alcune categorie operaie conquistano le otto ore già a metà dell”800, con l’estensione graduale di questa conquista politica ed economica in tutta l’isola. I lavoratori australiani fissano una data in cui ricordare quell’evento, il 21 aprile.
Negli Stati Uniti i sindacati muoiono con l’inizio della Guerra Civile, ma rifioriscono nel 1864 e due anni dopo, a Baltimora, nasce la prima organizzazione nazionale dei lavoratori (la National Labor Union), che getta le sue fondamenta nell’internazionalismo. Il meccanico Ira Steward, uno dei due fondatori, promuove negli Stati dell’Unione una campagna per l’istituzione della legge delle otto ore lavorative.
Grazie alla scintilla innescata dalla National Labor Union, il fuoco divampa ovunque, tant’è che il governo federale, nel 1868, fa approvare una legge che stabilisce solo per i suoi dipendenti la giornata lavorativa di otto ore.
La lotta per la riduzione dell’orario di lavoro negli USA è incitata e appoggiata da Karl Marx e dalla “sua” Associazione Internazionale dei Lavoratori.
Agli inizi degli anni Settanta la NLU lascia spazio ai Cavalieri del Lavoro (“Knights of Labor“), che nel decennio successivo diviene la prima associazione di massa dei lavoratori americani. Anche durante la crisi del 1873, in cui la borghesia si accanisce aspramente verso i lavoratori ed i sindacati, è tenuta alta la bandiera delle otto ore. Le associazioni sono costrette ad entrare in clandestinità per evitare pestaggi e licenziamenti dei lavoratori, ma proprio a fine anni Settanta, con l’inizio della forte ripresa dell’industria, i Knights of Labor e l’American Federation of Labor scendono in sciopero.
Il 1886 è l’”anno della grande sollevazione”, in cui la produzione USA tocca il massimo storico (superando quella del 1882). Questo anno vede un aumento gigantesco degli iscritti ai sindacati, delle astensioni dal lavoro e del numero degli scioperi. In ogni manifestazione c’è un’unica parola d’ordine: “8 hours labour, 8 hours recreation, 8 hours rest” (“otto ore per lavorare, otto ore per educarsi, otto ore per riposare”).
E’ proprio da un congresso dell’American Federation of Labor che nasce a Chicago, nel 1884, la proposta di una giornata di lotta per le otto ore il Primo Maggio 1886. La stampa borghese non può che tentare di ostacolare questo processo, inventando accuse verso i lavoratori come quelle di “paralizzare l’industria”, “gettare il Paese nell’oblio dell’ozio, della violenza e della corruzione” e così via, fino al già conosciuto slogan “ogni scioperante è uno straniero, ogni straniero un comunista e ogni comunista, sempre, un “tedesco comunista”.
Chicago è un grande centro industriale, grazie a ferrovie, grano, conservifici, mattatoi e gruppi editoriali. La regione in cui è sita, quella dei Grandi Laghi, è in forte sviluppo: gli operai dell’industria manifatturiera si sono quintuplicati ed i tre quarti degli abitanti sono immigrati e figli di immigrati. Ma Chicago è anche il centro in espansione del movimento anarchico e di quello socialista.
Possiamo dire che il The Alarm era il periodico degli operai. Il suo direttore era Albert Parsons, socialista e anarchico, segretario della Lega di Chicago per le otto ore, affiancato da August Spies. In opposizione a loro vi erano gli industriali della città che istituiscono una milizia a fianco della polizia e che utilizzano la stampa per istigare il movimento dei lavoratori, sperando che essi si fermino, oppure che reagiscano, avendo così un pretesto per la totale repressione.
Il Primo Maggio 1886 arriva presto, e i lavoratori marciano in un corteo infinito, ma a Chicago 80 mila operai non erano andati in fabbrica e la maggior parte, disse Spies, agitando eccitato le braccia, stavano lì attendendo che il corteo si muovesse. Come se avesse un presentimento gli segnalò poi alcune frasi di un editoriale del Mail:
«Circolano liberamente in questa città due pericolosi ruffiani; due vigliacchi di imboscati che cercano di creare disordini. Uno si chiama Parsons, l’altro Spies… Segnateli per oggi. Teneteli d’occhio. Considerateli personalmente responsabili se accadesse qualche disordine. E se ciò si verificasse, che servano da esempio.»
Il corteo si mosse e migliaia di persone incominciarono a sfilare; ognuno aveva dentro di sé, mentre marciava, un’ondata di emozioni dovuta allo spettacolo eccitante e gaia solidarietà. I ragazzi lasciavano ogni tanto i loro genitori e correvano avanti. Le persone ridevano esultanti, guardando indietro la marea in marcia, simbolo visibile della forza dei lavoratori uniti. In quella massa che sembrava non dovesse mai finire c’erano Cavalieri del Lavoro e membri dell’American Federation of Labor, boemi, tedeschi, polacchi, russi, irlandesi, italiani, negri, cowboy che ora lavoravano in città. C’erano insieme cattolici, protestanti ed ebrei, anarchici e repubblicani, comunisti e democratici, socialisti, sostenitori dell’imposta unica, e persone semplici, tutti uniti e fermamente decisi per la giornata di otto ore.
Parsons marciava vicino alla testa del corteo, tenendo per mano sua moglie; sua figlia Lulù di sette anni stava vicino al padre e Albert di otto vicino alla madre. Il corteo svoltò sul lungolago, fermandosi per i discorsi in inglese, boemo, tedesco e polacco. […]
Pronta ad uno scontro decisivo, Chicago si sentì un po’ ingannata ritrovandosi in pace. Il giorno dopo, domenica, Parsons partì per Cincinnati per tenervi un comizio. Lunedì lo sciopero dilagò e diverse migliaia di lavoratori di Chicago ottennero la giornata di otto ore, mentre, dal suo canto, il Comitato civico cominciò a dire che bisognava fare qualcosa.
La polizia, esasperata, dopo tanti preparativi, dalla futilità del Primo Maggio, scaricò la tensione accumulata scagliandosi contro i dipendenti della McCormick Harvester Works in lotta contro una serrata, quando questi si scagliarono contro 300 crumiri. All’orario di uscita un gran numero di dipendenti sospesi dall’azienda aspettavano i crumiri quando la polizia li caricò improvvisamente, pistole in pugno. Essi cominciarono a indietreggiare quando la polizia, secondo un testimone, “aprì il fuoco colpendoli alle spalle. Ragazzi e uomini furono uccisi mentre correvano”. I morti furono sei. Spies che stava parlando poco distante ad una riunione di lavoratori del legno, vide il massacro; dopo che ne ebbe riferito ai suoi colleghi, si decise di tenere la sera dopo ad Haymarket Square una manifestazione di protesta contro le violenze della polizia.
Parsons era ritornato da Cincinnati ancora su di giri per le notizie che davano migliaia di lavoratori in tutto il paese vittoriosi per le otto ore. […] La folla era troppo numerosa per Haymarket Square e Spies, che era giunto per primo, aveva spinto un carro vuoto per farne la tribuna per gli oratori, un mezzo isolato più in giù, nell’angolo di una strada a ciottoli. Vicino c’era la stazione di polizia di Desplaines Street, comandata dal capitano John “Manganello” Bonfield e lì, all’insaputa di Spies, erano stati mobilitati 180 poliziotti pronti a muoversi se si fosse presentata un’occasione. Spies non sapeva nemmeno che tra la folla c’era il sindaco, Carter Harrison.
Spies stava parlando quando vide venire Parsons con la moglie e i figli. Fu riconosciuto dalla folla e fu applaudito. Dopo aver sistemato sua moglie e i suoi bambini su un altro carro vuoto, Parsons si avvicinò all’improvvisata tribuna, vi si issò e prese a parlare. «Non sono qui per incitare nessuno», disse, «ma per parlare dei fatti così come sono». Il sindaco di Chicago si allontanò dalla piazza e andò alla vicina stazione di polizia dove disse al capitano Bonfield che il comizio era tranquillo e che i poliziotti che erano stati mobilitati potevano essere allontanati e rinviati ai loro normali incarichi.
Parsons finì di parlare alle dieci. […] La folla cominciò a defluire. Stava parlando Sam Fielden, ma Parsons prese la moglie e i figli e, con altri, si fermò al locale all’angolo, Zepf’s. Presto incominciarono a ridere e a raccontare storie davanti a boccali di birra, mentre fuori Fielden, oratore mediocre, si affaticava davanti ad un uditorio in costante diminuzione.
«E’ un fatto», stava dicendo «che non abbiamo controllo alcuno sulle nostre vite, che altri dettano condizioni della nostra esistenza.