L’INTERPOSIZIONE DI MANODOPERA
Sommario 1. L’interposizione di manodopera. – 2. Il divieto di cottimo collettivo autonomo. – 3. Il divieto “generale” di interposizione nelle prestazioni di lavoro. – 3.1. La fornitura di lavoro temporaneo – 4. La somministrazione di lavoro di cui alla legge 276/2003 – 4.1. Principio di parità di trattamento tra lavoratore interposto ed interno e responsabilità solidale tra utilizzatore ed interposto – 4.2. L’impianto sanzionatorio e la distinzione tra interposizione di manodopera e appalto.
LEGISLAZIONE Disp. Prel. c.c. 15 – c.c. 1655, 1676, 2094 – l. 23 ottobre 1960, n. 1369 (divieto di intermediazione, ora abrogata) – l. 24 giugno 1997, n. 196 (lavoro interinale, ora abrogata) – l. 14 febbraio 2003, n. 30 (legge delega) – d.lg. 10 settembre 2003, n. 276, 18, 19, 20-28, 29 (somministrazione di manodopera) – l. 18 dicembre 1973, n. 877, 2 (lav. domicilio).
BIBLIOGRAFIA Carnelutti 1961 – Mazzoni 1988 – Nicolini 1996 – Pera 1996 – Galantino 1997 – Carinci M.T. 2000 – Ichino 2000 – Biagi 2003.
1. L’interposizione di manodopera.
L’art. 2127 c.c. appartiene a quelle norme del codice civile tuttora esistenti, ma di fatto sostanzialmente abrogate dalla sopravvenienza di nuove discipline regolamentanti la medesima materia per intero, nella fattispecie in termini inclusivi (come è avvenuto a seguito dell’introduzione della l. 23 ottobre 1960, n. 1369, ora a sua volta abrogata e sostituita dal d.lg. 10 settembre 2003, n. 276).
La materia di cui si occupa – in tale disposizione – il codificatore è l’interposizione di manodopera, o meglio – come vedremo – una “particolare” specie o sottospecie di detta interposizione e precisamente quella che va sotto il nome di “cottimo collettivo autonomo”.
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Prima di addentrarci nello specifico, si ritiene utile affrontare il problema dal punto di vista generale.
Per “interposizione di manodopera” si intendono tutte quelle molteplici situazioni nelle quali un datore di lavoro (cd. “committente” o “interponente”), anziché assumere direttamente il personale di cui ha bisogno per la propria attività, si avvale della forza lavoro fornita da un terzo soggetto (cd. “appaltatore” o “interposto”), i cui dipendenti (assunti e retribuiti da quest’ultimo) svolgono però la propria prestazione a favore del primo (detto anche “utilizzatore”).
Il fenomeno, rappresentato figurativamente dal classico triangolo concettuale “utilizzatore/interposto/prestatore”, è caratterizzato dall’esistenza di due rapporti negoziali: quello tra il lavoratore e l’intermediatore (di regola un contratto di lavoro subordinato da eseguirsi a favore e sotto le dipendenze di un diverso soggetto utilizzatore); e quello tra l’imprenditore/utilizzatore e l’interposto (che può assumere la specie di un contratto di appalto, o di una mera somministrazione di manodopera, oppure di un distacco temporaneo di manodopera).
Si parla, a tal proposito di “decentramento produttivo”, ad identificare “tutte le pratiche volte a dislocare al di fuori dell’azienda fasi più o meno rilevanti del ciclo produttivo di una impresa, che vengono affidate ad altre imprese, di dimensioni normalmente minori, o anche a singoli prestatori di lavoro, come nel caso del lavoro a domicilio” (Biagi 2003, 176).
In sostanza, l’utilizzazione del lavoro altrui non avviene sempre necessariamente attraverso la stipula di contratti di lavoro subordinato “diretti” tra imprenditore e singoli lavoratori, oppure – laddove possibile – mediante contratti di lavoro autonomi, quantunque in forma coordinata e continuativa; l’imprenditore, in taluni casi, può ricorrere alla collaborazione di altri soggetti avvalendosi del cd. “rapporto interpositorio”.
L’interposto, a sua volta, può essere un appaltatore, quando esso fornisca un’opera o un servizio, ed a tal fine diriga i lavoratori ivi addetti, con organizzazione dei mezzi necessari e con gestione a proprio rischio (ex art. 1655 c.c.; nonché ora art. 29 del d.lg. 10 settembre 2003, n. 276).
In altri casi, invece, l’interposto può limitarsi a fornire solo la manodopera al committente, mettendogli a disposizione i lavoratori che eseguiranno l’attività indicata – anche in via mediata – da quest’ultimo e sotto la sua direzione. In tal caso, l’interposizione viene in genere svolta da apposite agenzie costituite appositamente per la fornitura di lavoro in modo periodico o continuativo (cd. somministrazione), nei casi previsti dalla legge (le agenzie di lavoro temporaneo o intermittente, ai sensi della l. 24 giugno 1997, n. 196, sono state ora sostituite dalle agenzie di somministrazione di lavoro, di cui agli artt. 20-28, del d.lg. 10 settembre 2003, n. 276).
Ma l’interposto può anche essere una figura occasionale di cui ci si avvale una tantum, o addirittura appositamente cercata o fittiziamente creata (la cd. “testa di paglia”) al solo fine di simulare una situazione apparente (appalto o somministrazione o distacco) diversa da quella reale (utilizzo di manodopera propria), ossia per “aggirare” regole e divieti imposti dalla legge, e generalmente in danno dei lavoratori interposti (si parla, in tal caso, di “interposizione fraudolenta”).
Non v’è dubbio che l’istituto dell’interposizione abbia conosciuto una evidente evoluzione nel corso degli anni.
Tutta la legislazione che si è sviluppata – in materia – a partire dalla norma codicistica dell’art. 2127 c.c., nonché la giurisprudenza formatasi nel tempo, hanno cercato di posizionare il livello di confine tra interposizione lecita ed illecita (e, di seguito, tra datore di lavoro fittizio e quello effettivo), nello spettro delle possibili sue manifestazioni concrete, sulla base di una diversa considerazione di valore del fenomeno interpositorio stesso.
2. Il divieto di cottimo collettivo autonomo.
L’art. 2127 c.c. regolamenta una ipotesi particolarissima di interposizione di manodopera, quella posta in essere tramite “dipendenti” dell’imprenditore, retribuiti a cottimo (e quindi in funzione del lavoro effettivo svolto in un arco di tempo a favore dell’imprenditore), che a loro volta assumono e retribuiscono altri lavoratori, al fine di eseguire il lavoro ricevuto e conseguire il risultato di cottimo (e l’utile di cottimo conseguente), collettivamente, come squadra di lavoro, indipendentemente dalla misura dell’apporto di ciascuno di essi (trattasi del cd. “cottimo collettivo autonomo”).
La disposizione vieta questa pratica, che rappresenta(va) uno dei casi più evidenti ed eclatanti di “pseudo-appalto”, mascherandosi – mediante l’affidamento “apparente”, a propri dipendenti, di lavori “interni” a cottimo, da eseguirsi utilizzando altri lavoratori, assunti e pagati dal cottimista/subappaltatore – invece un rapporto di lavoro “reale” dei lavoratori utilizzati con l’imprenditore utilizzatore, con intento elusivo da parte di quest’ultimo delle norme a tutela dei lavoratori subordinati.
La norma, peraltro, riguarda solo il caso in cui a) l’interposto sia dipendente dell’imprenditore, b) e riceva l’affidamento di lavori inseriti nel processo produttivo interno, c) ed è altresì limitata all’ipotesi di mero affidamento di lavori a cottimo (per la particolare tutela assegnata dal medesimo codice, ex artt. 2100 e 2101 c.c., ai lavoratori così retribuiti, in considerazione delle particolari modalità usuranti di tale sistema); sicché ad esempio paiono rimanere fuori dal divieto affidamenti di lavori, interni all’impresa, ma non retribuiti a cottimo, da eseguirsi con prestatori assunti e retribuiti da dipendenti interposti.
Peraltro, anche la sanzione non è formulata in termini particolarmente gravosi, consistendo nella responsabilità diretta del committente nei confronti dei lavoratori, ma nei limiti degli obblighi derivanti dai contratti di lavoro stipulati dal dipendente/intermediario (comma secondo).
A dire il vero, al di là della stringata formulazione positiva impositiva del divieto, deve storicamente rilevarsi, nel nostro ordinamento giuridico, l’enucleazione di un principio generale sotteso alla stessa disciplina del lavoro subordinato, ossia quello della necessaria coincidenza tra il titolare formale del contratto di lavoro, con il soggetto che effettivamente utilizza la prestazione lavorativa.
Il fondamento della tesi secondo cui questo tipo di contratto non sarebbe compatibile con forme interpositorie, coinvolgenti soggetti terzi rispetto ad utilizzatore e prestatore, è stato ricondotto addirittura all’art. 2094 c.c., per il quale l’oggetto dell’obbligazione del lavoratore è “il proprio lavoro intellettuale o manuale” svolto “alle dipendenze e sotto la direzione dell’imprenditore”; sicché colui verso il quale il lavoratore assume l’obbligo con il contratto, dovrebbe essere lo stesso imprenditore (la tesi è oggi criticata, laddove la norma nulla dice circa il soggetto con il quale il lavoratore può obbligarsi, e non esclude quindi la possibilità che egli possa obbligarsi, verso un soggetto diverso, a rendere la propria prestazione) (Ichino 2003, 403; Magrini 1973, § 11; Pera 1996, 321).
Detto orientamento è comunque espressione di una concezione di disvalore rispetto al fatto oggettivo del ricorso all’interposizione di manodopera, che si ritiene non avere altra funzione che quella di creare una rendita di posizione all’interposto (“se un imprenditore paga la giornata dei suoi lavoratori 100 e cede ad un altro il loro lavoro a 120, guadagna alle loro spalle. E’ codesto contratto tra i due imprenditori che la legge vieta”, Carnelutti 1961, 503, in sede di commento alla legge 1369/1960; significativa, a tal riguardo, anche la relazione alla Camera del 7 dicembre 1959 di presentazione della legge, secondo cui “tale pratica va a discapito dei lavoratori”), oppure di consentire all’interponente di eludere norme imperative poste a tutela del lavoratore (che usufruisce di forza lavoro senza assumersene i relativi costi e responsabilità).
3. Il divieto “generale” di interposizione nelle prestazioni di lavoro.
La materia dell’interposizione di manodopera è stata per lungo tempo disciplinata dalla (ora abrogata) legge 23 ottobre 1960, n. 1369 (“divieto di intermediazione ed interposizione nelle prestazioni di lavoro e nuova disciplina dell’impiego di mano d’opera negli appalti di opere e servizi”), e quindi vietata in quanto tale: indipendentemente dal fatto che l’interponente ed utilizzatore effettivo delle prestazioni lavorative interposte abbia eluso (o abbia voluto eludere) obblighi retributivi o contributivi (interposizione “fraudolenta”); indipendentemente dal fatto che l’attività affidata all’interposto ed ai suoi lavoratori sia inserita nel processo produttivo dell’impresa (cd. interposizione “interna” o “introaziendale”, come nella norma sul cottimo collettivo autonomo); indipendentemente dal fatto che il soggetto interposto eserciti effettivamente il potere direttivo sui lavoratori e che metta effettivamente a disposizione la propria manodopera per l’attività chiesta dal committente (si parla in tal caso di interposizione “reale”, per distinguerla da quella “fittizia”, ove invece l’interposto funge semplicemente da intermediario apparente ed in realtà la manodopera viene gestita e diretta dall’interponente).
Resta invece possibile all’imprenditore affidare a terze persone l’appalto di un’opera o un servizio (non della sola manodopera), anche all’interno del ciclo produttivo aziendale, purché il rapporto contrattuale possegga le caratteristiche costitutive previste dall’art. 1655 c.c., ossia l’organizzazione dei mezzi necessari e la gestione a proprio rischio.
In tal senso, la giurisprudenza sulla somministrazione vietata si è incentrata sul problema della sussistenza, nei singoli casi concreti specie di esternalizzazione di attività interne, di una ipotesi di “appalto genuino” (lecito), al fine di discriminare le fattispecie ammesse da quelle illecite (di cui si vedrà meglio infra).
L’art. 1 della legge pone il divieto.
“E’ vietato all’imprenditore di affidare in appalto o in subappalto o in qualsiasi altra forma, anche a società cooperative, l’esecuzione di mere prestazioni di lavoro mediante impiego di manodopera assunta e retribuita dall’appaltatore o dall’intermediario, qualunque sia la natura dell’opera o del servizio cui le prestazioni si riferiscono.
E’ altresì vietato all’imprenditore di affidare ad intermediari, siano questi dipendenti, terzi o società anche se cooperative, lavori da eseguirsi a cottimo da prestatori di opere assunti e retribuiti da tali intermediari.
E’ considerato appalto di mere prestazioni di lavoro ogni forma di appalto o subappalto, anche per esecuzione di opere o di servizi, ove l’appaltatore impieghi capitali, macchine ed attrezzature fornite dall’appaltante, quand’anche per il loro uso venga corrisposto un compenso all’appaltante”.
(art. 1, commi 1°, 2° e 3°, della l. 23 ottobre 1960, n. 1369).
Come si vede, la legge estende “in via generale” il divieto specifico, già previsto dall’art. 2127 c.c., applicandolo a tutte le ipotesi di utilizzo di manodopera assunta e retribuita da un appaltatore o da un intermediario, qualunque forma contrattuale possa assumere detta interposizione (anche mascherata per esempio da pseudo appalto di servizi, in genere preceduto da una cessione di strumenti e attrezzature da parte dell’interponente) e qualunque natura abbia l’attività a cui siano devolute le prestazioni (e quindi non limitandosi il divieto al decentramento delle sole attività imprenditoriali da svolgersi nei locali aziendali, riguardando anzi anche le attività commesse a domicilio; peraltro, l’art. 2 della l. 877/1973 sul lavoro a domicilio ribadisce il “divieto ai committenti di lavoro a domicilio di valersi dell’opera di mediatori o di intermediari comunque denominati i quali, unitamente alle persone alle quali hanno commesso lavoro a domicilio, sono considerati, a tutti gli effetti, alle dipendenze del datore di lavoro per conto e nell’interesse del quale hanno svolto la loro attività”, riprendendo la medesima sanzione di cui al comma quinto della l. 1369/1960).
Nel secondo comma, la disciplina ricomprende espressamente il divieto di interposizione del cottimo, peraltro non limitandolo ai soli dipendenti interposti, ma estendendolo anche a terzi non dipendenti in coerenza con l’impianto omnicomprensivo del divieto (l’art. 2127 c.c., per tale motivo è stato ritenuto tacitamente abrogato dalla nuova disciplina che regola ex novo interamente la materia, ai sensi dell’art. 15 preleggi).
La fattispecie è poi integrata dalla previsione del terzo comma, nel quale si delinea una presunzione “juris et de jure” di interposizione vietata (Cass., sez. lav., 13 gennaio 1988, n. 151, MGC, 1988, fasc. 1; Cass., S.U., 19 ottobre 1990, n. 10183, GC, 1991, I, 281), riguardante la “tipica” situazione di “pseudo appalto” di opere o servizi, con difetto di imprenditorialità della prestazione e conseguente sua qualificazione in termini di mera somministrazione di manodopera vietata; ossia quando il committente abbia fornito all’appaltatore interposto i capitali, le macchine e le attrezzature necessarie alla esecuzione dell’opera (evidentemente sul presupposto – predeterminato legalmente – che, se l’imprenditore possiede tutti gli elementi necessari per il compimento del lavoro, e ciò nonostante ricorre all’appalto, lo fa solo per procurarsi con tale mezzo la manodopera necessaria ed evitare nuove assunzioni; che è poi proprio il risultato vietato dalla legge).
Alla violazione del divieto di legge consegue (oltre alla sanzione penale dell’ammenda “per ogni lavoratore occupato e per ogni giornata di occupazione”) il fatto che, ai sensi del comma quinto dell’art. 1, “i prestatori di lavoro sono considerati, a tutti gli effetti, alle dipendenze dell’imprenditore che effettivamente abbia utilizzato le loro prestazioni” (mentre, nell’art. 2127 c.c. si aveva semplicemente una responsabilità patrimoniale dell’imprenditore per i lavoratori assunti dall’intermediario).
La sanzione è differente anche rispetto a quella di cui all’art. 2126 c.c., ove ci si limita a riconoscere il diritto al corrispettivo per una prestazione già svolta, in costanza di contratto di lavoro invalido, e quindi non suscettibile di effetti permanenti per il futuro; mentre qui si assicura al lavoratore la permanenza contrattuale e la prosecuzione in futuro del rapporto di lavoro, seppure “novato” dal lato soggettivo, con sostituzione dell’interponente all’interposto (Mazzoni 1988, 505-506).
Infine, a testimoniare la sottile differenza tra mera somministrazione di manodopera e appalto (specie di servizi), con conseguente difficoltà di accertare nel caso concreto la sussistenza dell’una o dell’altra ipotesi, soprattutto se l’interposizione vietata o l’appalto lecito avvengono all’interno dell’azienda, va segnalato l’art. 3 della legge, che detta una regolamentazione ad hoc per l’ipotesi di “appalto interno”, una sorta di tertium genus tra somministrazione di manodopera e appalto.
Ivi si prevede espressamente che l’interposizione di manodopera possa avvenire (lecitamente) nell’ambito di un appalto “genuino” di opere o servizi (“compresi i lavori di facchinaggio, di pulizia o di manutenzione ordinaria degli impianti”), da eseguirsi “nell’interno delle aziende con organizzazione e gestione propria dell’appaltatore”.
In tal caso, pur nella fuoriuscita della fattispecie dall’ambito della illiceità ex lege, tuttavia, in considerazione comunque del disvalore riconosciuto ai fenomeni interpositori (potenzialmente forieri di trattamenti economici praticati dall’appaltatore deteriori rispetto a quelli goduti dai dipendenti del committente), la norma stabilisce – per ovviare al problema – l’obbligo solidale tra imprenditore ed appaltatore di corresponsione ai dipendenti interposti di “un trattamento minimo inderogabile retributivo”, nonché di assicurazione di un “trattamento normativo”, “non inferiori a quelli spettanti ai lavoratori” dipendenti direttamente dall’imprenditore; nonché l’adempimento solidale degli obblighi derivanti dalle leggi di previdenza ed assistenza (cd. principio di “parità di trattamento” tra lavoratori interposti ed interni).
Detta maggior garanzia riguarda i lavoratori impiegati negli appalti di opere o servizi “interni” all’azienda, rispetto a quelli impiegati nella generalità degli appalti (per i quali opera invece la previsione dell’art. 1676 c.c. e l’azione diretta da loro esperibile nei confronti del committente per conseguire quanto loro dovuto, seppure nei limiti del debito di quest’ultimo verso l’appaltatore al momento della domanda).
Detta sanzione è di ben minore portata rispetto a quella connessa alla violazione dell’art. 1 sulla interposizione di manodopera (che prevede, al comma 5°, la costituzione del rapporto di lavoro degli interposti in capo al utilizzatore), dal momento che l’appalto di cui all’art. 3 è in genere “genuino” e riguarda l’affidamento all’esterno di determinate fasi della lavorazione, e la maggior esigenza di tutela risiede nel dover fronteggiare il caso in cui si voglia artificiosamente spezzare il ciclo normale produttivo al solo ed unico scopo di lucrare sulla differenza del costo del lavoro; mentre, l’appalto di cui all’art. 1 (specie quello con impiego di mezzi forniti dall’appaltante, di cui al comma 3°) è in genere “apparente” e maschera – appunto – una mera fornitura di manodopera comunque illecita (per il ritenuto scopo elusivo delle norme protettive dei lavoratori) e la drastica esigenza di tutela risiede nel ripristino d’autorità del rapporto lavorativo “reale” (insito nell’effettiva utilizzazione) rispetto a quello “apparente” (formalmente ricondotto al contratto di appalto o comunque all’interposto).
Detta sanzione, peraltro, non si applica ai casi specifici di appalto interno indicati dal successivo art. 5 (che quindi costituisce “eccezione” espressa all’art. 3), nel quale sono elencati lavori non riconducibili nel normale ciclo produttivo di una qualunque impresa e per i quali non c’è ragione di sospettare intenti fraudolenti da parte del committente in danno dei lavoratori interposti (Galantino 1997, 179).
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Nella difficoltà di discriminare le ipotesi lecite da quelle vietate, soprattutto in ipotesi di interposizione “interna”, la giurisprudenza ha avuto modo di affermare una interpretazione estensiva di quest’ultima fattispecie.
“La legge n. 1369 del 1960 in materia di intermediazione ed interposizione delle prestazioni di lavoro ha inteso garantire i lavoratori che prestano opere e servizi nel ciclo produttivo dell’azienda o, quanto meno, nell’ambito dell’impresa o comunque rientranti nei fini produttivi o nell’organizzazione aziendale e, pertanto, il divieto di intermediazione di cui all’art. 1 di tale legge sussiste non soltanto per l’ipotesi in cui la prestazione di lavoro sia strettamente connessa con il processo produttivo oggetto specifico dell’impresa appaltante, ma ogni volta che questa abbia utilizzato effettivamente le prestazioni del lavoratore, sia pure per attività complementari o sussidiarie (nella specie, assistenti sociali assunti formalmente da terzi e destinati a prestare la propria opera in favore di marittimi dipendenti da una compagnia di navigazione) preordinate soltanto mediatamente o indirettamente al raggiungimento della propria finalità”.
(Cass., sez. lav., 23 febbraio 1983, n. 1359, GC, 1983, I, 3349).
In sostanza, il divieto generale di interposizione di manodopera di cui alla l. 1369/1960 ha una sfera di applicazione amplissima (Nicolini 1996, 70) e pare operare – per il criterio più rigoroso – sulla base del semplice fatto dell’ “utilizzo” di manodopera fornita da altri per attività connesse anche “mediatamente” alle finalità aziendali, ossia pressoché per tutte (piuttosto che sull’individuazione di una esternalizzazione connessa all’esecuzione di un’opera o di un servizio, anche con prevalenza di manodopera, in costanza di un “genuino” contratto di appalto, con gestione propria dell’appaltatore e sua assunzione di rischio; circostanza che nella maggioranza delle decisioni rappresenta correttamente il “criterio principe” – ed unico – di distinzione tra ipotesi lecite ed illecite, come meglio si vedrà infra); e ciò, indipendentemente dal fatto che – attuando l’interposizione – si siano voluti raggiungere fini elusivi di norme imperative (contra, all’estremo opposto, ma isolata, nel senso che “la tutela apprestata dalla legge, concernendo tutti e soltanto quei casi in cui l’interposizione sia obiettivamente idonea a menomare un qualche diritto del lavoratore, non trova applicazione allorché la posizione soggettiva di quest’ultimo, malgrado la dissociazione fra datore di lavoro apparente e beneficiario della prestazione lavorativa, non subisce deterioramento di alcun genere”, Cass., sez. lav., 18 ottobre 1983, n. 6093, MGL, 1983, 377).
L’interposizione, con la citata disciplina, è ormai fattispecie contra legem, non più in fraudem legis (Carinci M.T. 2000, 13).
3.1. La fornitura di lavoro temporaneo.
Peraltro, il rigore normativo è stato “attenuato” successivamente dalla giurisprudenza, nella sua opera di discrimine tra mera interposizione di manodopera vietata e appalto genuino (Cass., S.U., 19 ottobre 1990, n. 10183, GI, 1991, I, 281, che – in un caso di prestito, da parte di una software house, ad un’impresa di altro settore, di programmatori informatici che lavorano anche stabilmente nei locali di quest’ultima – ha configurato la fattispecie come appalto legittimo di servizi informatici quando, pur facendo difetto l’impiego di una apprezzabile organizzazione di mezzi materiali, la prestazione stessa sia resa possibile da un rilevante elemento di capitale immateriale del quale soltanto l’impresa fornitrice dispone e non la committente)
“La realtà è che le stesse Sezioni Unite si rendono conto degli effetti socialmente indesiderabili che sarebbero prodotti da una applicazione rigorosa di quel divieto in tutta una gamma, sempre più ampia ogni giorno che passa, di casi nei quali il contratto di somministrazione di manodopera non soltanto non presenta rilevanti aspetti di pericolosità sociale, ma al contrario è sovente indispensabile per la migliore valorizzazione di determinate professionalità specifiche dei lavoratori, oltre che per la riduzione dei costi di transazione delle imprese utilizzatrici, in un tessuto produttivo sempre più mobile, complesso, segmentato e bisognoso di canali sofisticati di comunicazione fra domanda e offerta di lavoro”.
(Ichino 2000, 443-444).
Ma il rigore del divieto è stato attenuato anche dal medesimo legislatore che, con la l. 24 giugno 1997, n. 196 (anch’essa ora abrogata) ha legalizzato una particolare ipotesi di somministrazione di manodopera, ossia la “fornitura di lavoro temporaneo” effettuata mediante agenzie cd. di “lavoro intermittente”.
Con detta disciplina (che costituisce una evidente “eccezione” alla regola generale, rappresentando una tipica ipotesi di dissociazione tra titolare del rapporto di lavoro e fruitore della prestazione lavorativa, e di interposizione “fittizia”) si permette l’instaurazione di un rapporto trilatero, in base al quale una impresa fornitrice di manodopera – a ciò espressamente e debitamente autorizzata – assume e retribuisce dei lavoratori (in qualità di datore di lavoro interponente) inviandoli presso un terzo soggetto (l’imprenditore utilizzatore) a svolgere “temporaneamente” una attività lavorativa (a tempo pieno o a tempo parziale) sotto la direzione ed il controllo dello stesso utilizzatore.
Trattasi della prima manifestazione di attenzione verso fenomeni di decentramento produttivo sinora visti con sfavore.
Per evitare comunque derive fraudolente, la disciplina prevede che ai prestatori di lavoro temporaneo interposti sia corrisposto un trattamento non inferiore a quello percepito dai dipendenti di pari livello dell’impresa utilizzatrice (in applicazione di quel principio di parità già applicato per gli appalti interni).
4. La somministrazione di lavoro di cui alla legge 276/2003.
Il quadro sopra rappresentato è oggi profondamente mutato in virtù dell’introduzione nell’ordinamento giuridico della l. 14 febbraio 2003, n. 30 (“delega al governo in materia di occupazione e mercato del lavoro”, cd. legge Biagi), che dispone i “criteri direttivi” per l’adozione di una nuova disciplina sui rapporti interpositori, a seguito della disposta abrogazione del divieto generale di cui alla l. 1369/1960.
“m) abrogazione della legge 23 ottobre 1960, n. 1369, e sua sostituzione con una nuova disciplina basata sui seguenti criteri direttivi:
1) autorizzazione della somministrazione di manodopera, solo da parte dei soggetti identificati ai sensi della lettera l);
2) ammissibilità della somministrazione di manodopera, anche a tempo indeterminato, in presenza di ragioni di carattere tecnico, produttivo od organizzativo, individuate dalla legge o dai contratti collettivi nazionali o territoriali stipulati da associazioni dei datori e prestatori di lavoro comparativamente più rappresentative;
3) chiarificazione dei criteri di distinzione tra appalto e interposizione, ridefinendo contestualmente i casi di comando e distacco, nonché di interposizione illecita laddove manchi una ragione tecnica, organizzativa o produttiva ovvero si verifichi o possa verificarsi la lesione di diritti inderogabili di legge o di contratto collettivo applicato al prestatore di lavoro;
4) garanzia del regime della solidarietà tra fornitore e utilizzatore in caso di somministrazione di lavoro altrui;
5) trattamento assicurato ai lavoratori coinvolti nell’attività di somministrazione di manodopera non inferiore a quello a cui hanno diritto i dipendenti di pari livello dell’impresa utilizzatrice;
6) conferma del regime sanzionatorio civilistico e penalistico previsto per i casi di violazione della disciplina della mediazione privata nei rapporti di lavoro, prevedendo altresì specifiche sanzioni penali per le ipotesi di esercizio abusivo di intermediazione privata nonché un regime sanzionatorio più incisivo nel caso di sfruttamento del lavoro minorile;
7) utilizzazione del meccanismo certificatorio di cui all’articolo 5 ai fini della distinzione concreta tra interposizione illecita e appalto genuino, sulla base di indici e codici di comportamento elaborati in sede amministrativa che tengano conto della rigorosa verifica della reale organizzazione dei mezzi e dell’assunzione effettiva del rischio di impresa da parte dell’appaltatore”.
(art. 1, comma 2, lett. m, della l. 14 febbraio 2003, n. 30).
(E’ stata dichiarata non fondata la questione di legittimità costituzionale sollevata con riguardo a detta parte della legge, in riferimento agli artt. 117 e 118 Cost., in quanto si è ricondotta alla competenza esclusiva dello Stato in materia di “ordinamento civile” la disciplina intersoggettiva di qualsiasi rapporto di lavoro e, dunque, anche di quello instauratosi tra fornitore ed utilizzatore di manodopera, Corte Cost. 28 gennaio 2005, n. 50, GiC, 2005, 1; GI, 2006, 1, 3; RCDL, 2005, 77).
La legge 30/2003 ha avuto applicazione con il d.lg. 10 settembre 2003, n. 276, in particolare – per quanto qui concerne – con gli artt. 20-28 (sulla somministrazione di lavoro), 29-30 (sull’appalto e il distacco), 18-19 (sul regime sanzionatorio, penale e amministrativo).
Si è sopra cercato di mettere in luce gli aspetti del sistema previgente che possano far luce sulla odierna disciplina.
Sotto tale aspetto, rispetto alla disciplina di cui alla l. 196/1997 (ora parimenti abrogata), il d.lg. 276/2003 ha notevolmente ampliato l’area della somministrazione di manodopera.
Pur adottando il regime autorizzatorio delle agenzie di lavoro abilitate alla suddetta attività di somministrazione, intermediazione, ricerca e selezione del personale, nonché supporto alla ricollocazione professionale (per le quali l’art. 4 del d.lg. 276/2003 istituisce un apposito albo, e la cui regolamentazione è fissata nei decreti ministeriali 23 dicembre 2003 e 5 maggio 2004), l’aspetto profondamente innovativo della odierna disciplina rispetto al quadro previgente attiene alla possibilità di accedere a forme di “somministrazione di lavoro a tempo indeterminato”, cd. “staff leasing”, in presenza di condizioni oggettive specificate dalla legge o dalla contrattazione collettiva (art. 20, comma 3).
Peraltro, proprio detto aspetto innovativo ed estensivo della disciplina è stato oggetto di un disorganico revirement del legislatore che – con operazione di drastico “taglio” normativo – è intervenuto ad alterare gli equilibri della legge, svuotandola della parte forse più significativa: l’art. 1, comma 46, della legge 24 dicembre 2007, n. 247 ha “abolito il contratto di somministrazione di lavoro a tempo indeterminato di cui al titolo III, capo I, del decreto legislativo 10 settembre 2003, n. 276”.
Si riporta comunque l’intero articolo 20 del d.lg. 276/2003 (riportando la parte riguardante il contratto abolito entro parentesi quadra).
“1. Il contratto di somministrazione di lavoro può essere concluso da ogni soggetto, di seguito denominato utilizzatore, che si rivolga ad altro soggetto, di seguito denominato somministratore, a ciò autorizzato ai sensi delle disposizioni di cui agli articoli 4 e 5.
2. Per tutta la durata della somministrazione i lavoratori svolgono la propria attività nell’interesse nonché sotto la direzione e il controllo dell’utilizzatore. Nell’ipotesi in cui i lavoratori vengano assunti con contratto di lavoro a tempo indeterminato essi rimangono a disposizione del somministratore per i periodi in cui non svolgono la prestazione lavorativa presso un utilizzatore, salvo che esista una giusta causa o un giustificato motivo di risoluzione del contratto di lavoro.
3. Il contratto di somministrazione di lavoro può essere concluso a termine [o a tempo indeterminato. La somministrazione di lavoro a tempo indeterminato è ammessa:
a) per servizi di consulenza e assistenza nel settore informatico, compresa la progettazione e manutenzione di reti intranet e extranet, siti internet, sistemi informatici, sviluppo di software applicativo, caricamento dati;
b) per servizi di pulizia, custodia, portineria;
c) per servizi, da e per lo stabilimento, di trasporto di persone e di trasporto e movimentazione di macchinari e merci;
d) per la gestione di biblioteche, parchi, musei, archivi, magazzini, nonché servizi di economato;
e) per attività di consulenza direzionale, assistenza alla certificazione, programmazione delle risorse, sviluppo organizzativo e cambiamento, gestione del personale, ricerca e selezione del personale;
f) per attività di marketing, analisi di mercato, organizzazione della funzione commerciale;
g) per la gestione di call-center, nonché per l’avvio di nuove iniziative imprenditoriali nelle aree Obiettivo 1 di cui al regolamento (CE) n. 1260/1999 del Consiglio, del 21 giugno 1999, recante disposizioni generali sui Fondi strutturali;
h) per costruzioni edilizie all’interno degli stabilimenti, per installazioni o smontaggio di impianti e macchinari, per particolari attività produttive, con specifico riferimento all’edilizia e alla cantieristica navale, le quali richiedano più fasi successive di lavorazione, l’impiego di manodopera diversa per specializzazione da quella normalmente impiegata nell’impresa;
i) in tutti gli altri casi previsti dai contratti collettivi di lavoro nazionali o territoriali stipulati da associazioni dei datori e prestatori di lavoro comparativamente più rappresentative].
4. La somministrazione di lavoro a tempo determinato è ammessa a fronte di ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo, anche se riferibili all’ordinaria attività dell’utilizzatore. La individuazione, anche in misura non uniforme, di limiti quantitativi di utilizzazione della somministrazione a tempo determinato è affidata ai contratti collettivi nazionali di lavoro stipulati da sindacati comparativamente più rappresentativi in conformità alla disciplina di cui all’articolo 10 del decreto legislativo 6 settembre 2001, n. 368.
5. Il contratto di somministrazione di lavoro è vietato:
a) per la sostituzione di lavoratori che esercitano il diritto di sciopero;
b) salva diversa disposizione degli accordi sindacali, presso unità produttive nelle quali si sia proceduto, entro i sei mesi precedenti, a licenziamenti collettivi ai sensi degli articoli 4 e 24 della legge 23 luglio 1991, n. 223, che abbiano riguardato lavoratori adibiti alle stesse mansioni cui si riferisce il contratto di somministrazione ovvero presso unità produttive nelle quali sia operante una sospensione dei rapporti o una riduzione dell’orario, con diritto al trattamento di integrazione salariale, che interessino lavoratori adibiti alle stesse mansioni cui si riferisce il contratto di somministrazione;
c) da parte delle imprese che non abbiano effettuato la valutazione dei rischi ai sensi dell’articolo 4 del decreto legislativo 19 settembre 1994, n. 626, e successive modifiche”.
(art. 20 del d.lg. 10 settembre 2003, n. 276; il riferimento di cui alla norma sul contratto di somministrazione di lavoro a tempo indeterminato, con particolare riferimento al comma 3°, non è più in vigore, in virtù dell’abolizione di cui all’art. 1, comma 46, della l. 24 dicembre 2007, n. 247).
In tal modo, si dà legittimazione nell’ordinamento a forme di utilizzazione indiretta del lavoro altrui, nella prospettiva quindi di una diversa valutazione del fenomeno interpositorio, a cui ora si riconoscono valore ed utilità concrete (se non altro, per esempio, nell’esternalizzazione di attività richiedenti alta specializzazione, a fronte del fatto di doversi invece dotare degli strumenti e soprattutto del know-how necessario per far raggiungere, dall’interno, i medesimi obiettivi; ma anche, molto più semplicemente, nella utilità di poter affidare a terzi la ricerca e fornitura del personale con date caratteristiche, a fronte del fatto di doversi organizzare al proprio interno a detto scopo).
Peraltro, la recente abolizione della somministrazione di lavoro a tempo indeterminato ha in sostanza riportato la situazione a quella esistente nel vigore della l. 196/1977 sulle agenzie interinali per la fornitura di manodopera temporanea. Anche se deve segnalarsi l’attenuazione del carattere di “temporaneità delle esigenze aziendali” ai fini dell’accesso a contratti di somministrazione temporanei, in quanto – ai sensi dell’art. 20, comma 4° – l’azienda può ora rivolgersi all’agenzia anche in presenza di ragioni obiettive “riferibili all’ordinaria attività dell’utilizzatore”; tanto che si è proposto di parlare più correttamente – per detta ipotesi – non più di “fornitura o somministrazione di lavoro temporaneo”, semmai di “fornitura o somministrazione temporanea, cioè a termine, di lavoro” (Biagi 2003, 221).
Correlativamente, nel d.lg. 276/2003, si pone attenzione al fatto di impedire e sanzionare le ipotesi di illecito ricorso ai rapporti interpositori, che rimangono vietati e puniti nei casi in cui si fuoriesca dai limiti e dalle condizioni di legge (cd. “somministrazione irregolare”, ex art. 27), oppure in caso di “somministrazione non autorizzata” (ex art. 18), o ancora quando si configuri in concreto “la specifica finalità di eludere norme inderogabili di legge o di contratto collettivo” (cd. “somministrazione fraudolenta”, ex art. 28).
Sta di fatto che la nuova disciplina consente di ricorrere all’acquisizione di forza lavoro mediante intermediari o interposti, in ordinaria e stabile alternativa al contratto di lavoro subordinato diretto, nei limiti legali previsti e nonostante l’abolizione della somministrazione di lavoro a tempo indeterminato (e quindi con lavoro cd. intermittente).
Dal divieto generale di intermediazione si passa alla liceità della somministrazione di manodopera, purché “legale”.
Il fenomeno di interposizione di manodopera non è (più) di per sé stesso contra legem, bensì diventa – pur con le dovute cautele legali – lecito e perseguibile dalle parti; rimanendo illecita la mera interposizione irregolare, non autorizzata e/o fraudolenta.
4.1. Principio di parità di trattamento tra lavoratore interposto ed interno e responsabilità solidale tra utilizzatore ed interposto.
Ciò premesso, evidenziata la novità e la principale differenza tra il vigente quadro normativo e quello precedente, non v’è dubbio che – “al di fuori” degli (più o meno) angusti confini legali della somministrazione di manodopera lecita – permane il parallelismo con il precedente assetto, soprattutto di matrice giurisprudenziale.
Permane quindi il divieto di affidare all’esterno l’esecuzione di mere prestazioni di lavoro mediante manodopera assunta e retribuita da interposto (“somministratore”) a ciò non autorizzato (art. 20, comma 1°), oppure per lavori a tempo determinato in assenza di ragioni tecnico/organizzative (art. 20, comma 4°), e comunque nei casi espressamente vietati (art. 20, comma 5°); oppure mediante contratti privi della forma scritta o incompleti (art. 21).
Parimenti non può che considerarsi illecita l’interposizione attuata mediante pseudo-appalti volti a mascherare mere forniture di manodopera, e comunque con la specifica finalità di eludere norme inderogabili di legge o di contratto collettivo (art. 28).
In sostanza, il divieto generale di cui all’art. 1 dell’abrogata l. 1369/1960 continua ad applicarsi (non più in via generale, bensì) ad eccezione delle ipotesi di somministrazione di lavoro espressamente ammesse dalla nuova disciplina, e quindi per tutto quanto ne “residua” oltre l’area salvaguardata.
Peraltro, per detta area “emersa” e acquisita alla liceità, è previsto un parallelismo normativo davvero singolare e significativo, quello con la precedente disciplina riservata agli appalti da eseguirsi all’interno dell’azienda (art. 3 della l. 1369/1960); quasi che anche la somministrazione di lavoro possa configurarsi come una sorta di “concessione in appalto vero e proprio di determinate fasi della lavorazione o di servizi integrativi e collaterali; appalto vero e proprio perché la concessione avviene ad imprese vere, genuine”; da distinguersi dal fenomeno interpositorio illecito (di cui al vecchio art. 1 della l. 1369/1960), ove “tra l’imprenditore e i lavoratori in genere non si trova una vera impresa, bensì un mero intermediario per l’utilizzazione della manodopera, qualcosa che non è impresa, ma semplice interposizione fittizia unicamente allo scopo di impedire fraudolentemente la costituzione di un diretto rapporto di lavoro” (Pera 1996, 320).
Ebbene, l’art. 23, comma 1°, del d.lg. 276/2003 riprende il precedente principio della “parità di trattamento” tra lavoratori interni e quelli interposti, affermato dalla vecchia disciplina per i cd. appalti interni, stabilendo che “i lavoratori dipendenti dal somministratore hanno diritto a un trattamento economico e normativo complessivamente non inferiore a quello dei dipendenti di pari livello dell’utilizzatore, a parità di mansioni svolte” (con alcuni opportuni aggiustamenti non presenti nella vecchia norma, che avevano determinato incertezze applicative, come il riferimento alla parità di livello e di mansioni ed al trattamento complessivo, nella comparazione); mentre il comma 3° riafferma il principio della “responsabilità solidale” di utilizzatore e somministratore “a corrispondere ai lavoratori i trattamenti retributivi e i contributi previdenziali”.
In tal modo, si supera la principale obiezione rispetto al ricorso all’interposizione di manodopera, ossia la rendita di posizione all’interposto (ben sintetizzata dal Carnelutti più sopra citato “se un imprenditore paga la giornata dei suoi lavoratori 100 e cede ad un altro il loro lavoro a 120, guadagna alle loro spalle”).
“Dove opera la regola della parità di trattamento, il ricavo netto dell’agenzia di somministrazione di manodopera non si fonda – logicamente – sulla differenza tra quanto percepito dall’impresa cliente e quanto corrisposto al lavoratore: assicurata la parità rispetto ai lavoratori dell’impresa utilizzatrice , il margine di lucro dell’impresa di somministrazione non potrà infatti che basarsi sulla capacità di fornire in modo tempestivo e professionale prestazioni di lavoro che sarebbero eccessivamente costose per la singola impresa senza l’intervento dell’intermediario, o che, comunque, si caratterizzano per particolari contenuti o qualità (per esempio, in caso di qualifiche o competenze non agevolmente reperibili sul mercato o per lavori che richiedono particolari professionalità). L’utile ricavato dalla impresa di somministrazione, in questi casi, si giustifica allora come profitto in ragione dell’assunzione di un rischio tipico d’impresa”.
(Biagi 2003, 226).
D’altra parte, il parallelismo di regolamentazione non stupisce più di tanto se si considera che anche una mera fornitura di manodopera può essere esercitata in forma di vera impresa (specie se a ciò espressamente autorizzata) e che – in tal caso – l’esigenza di garanzia non è quella di impedire la sostituzione “fittizia” del datore di lavoro, quanto quella di impedire che con l’esternalizzazione il lavoratore somministrato percepisca meno di quello interno, a parità di situazioni.
Si capisce quindi come l’elenco dei casi di somministrazione a tempo indeterminato (ora abolita), di cui all’art. 20 comma 3° del d.lg. 276/2003, comprendesse in buona parte (con trasposizione anche letterale) le ipotesi di appalti interni precedentemente inseriti tra gli appalti “protetti” dai principi di parità e di solidarietà di cui all’art. 3 (peraltro elencati in via solo esemplificativa) e soprattutto tra gli appalti “esclusi” dalla suddetta protezione di cui all’art. 5, lettere da a) a h), della l. 1369/1960; con conseguente estensione del maggior grado di protezione ad alcuni processi di esternalizzazione prima esclusi dalla parità retributiva e dalla responsabilità solidale tra committente ed appaltatore.
Orbene, per gli affidamenti a terzi di attività “da eseguirsi nell’interno delle aziende” può procedersi non solo tramite contratti di somministrazione (sicuramente, ancora oggi, di tipo temporaneo, qualora sussistano ragioni produttive; non più invece a tempo indeterminato, nei casi previsti dall’art. 20, comma 3°, ora aboliti) ma anche con veri e propri contratti di appalto “con organizzazione e gestione propria dell’appaltatore”, qualora – come si vedrà – sussistano i requisiti posti dall’art. 29 a fini discriminativi tra le fattispecie dell’appalto e della somministrazione (e comunque riconducibili a quelli già individuati dalla giurisprudenza nella natura imprenditoriale della prestazione dedotta in contratto).
La somministrazione di lavoro disciplinata ex novo, pur analoga per molti aspetti alle ipotesi di cd. appalto interno, non esaurisce certo le ipotesi di appalti genuini di opere o servizi “da eseguirsi all’interno delle aziende”, né esclude di poter comunque affidare all’esterno ed in modo non fittizio l’appalto di servizi anche interni; dal momento che la regola vigente, ispirata al principio di parità di trattamento e di solidarietà, è stata abrogata, in uno con la abrogazione della l. 1369/1960; quid juris, ora, in tali casi? Non rinvenendosi una norma analoga nel d.lg. 276/2003 riguardante gli appalti interni (neppure nell’art. 29 relativo agli appalti) e dovendosi ritenere l’art. 23, comma 1°, applicabile alle ipotesi di mera somministrazione autorizzata di manodopera di cui all’art. 20 (e non agli appalti di opere e servizi, seppure interni), pare doversi concludere per l’inoperatività del principio di parità agli appalti interni.
Sotto questo aspetto si rileva che, nella vigenza della disciplina di cui al d.lg. 276/2003, con riguardo al decentramento di servizi da eseguirsi all’interno del ciclo produttivo aziendale ed in genere quasi esclusivamente mediante manodopera e poca organizzazione di mezzi, appare più garantito (ex art. 23) il lavoratore somministrato rispetto al dipendente dell’appaltatore interposto (al quale si applica l’art. 1676 c.c.).
L’utilizzatore potrà scegliere se avvalersi di lavoratori somministrati, sotto la sua direzione ed il suo controllo (art. 20, comma 2°); oppure se appaltare il servizio, cedendo all’appaltatore il potere organizzativo e direttivo nei confronti dei lavoratori utilizzati (art. 29, comma 1°).
L’abolizione del ricorso alla somministrazione a tempo indeterminato riduce ulteriormente, in ipotesi di decentramento “stabile” di opere o servizi interni, il ricorso a rapporti protetti ex art. 23, non residuando altra possibilità all’imprenditore che quella di appaltare il servizio.
4.2. L’impianto sanzionatorio e la distinzione tra interposizione di manodopera e appalto.
Anche con riguardo all’impianto sanzionatorio opera il parallelismo con la l. 1369/1960, sempre con l’avvertenza che, nell’odierna disciplina, l’area dell’illecito sanzionato è ovviamente ridotta in virtù della corrispettiva area di libertà di somministrazione salvaguardata ex novo.
Al pari di quanto previsto dal vecchio art. 1, comma 5°, della l. 1369/1960 (applicabile generaliter), l’odierno art. 27, del d.lg. 276/2003 (applicabile in caso di somministrazione irregolare, ossia “al di fuori dei limiti e delle condizioni” di legge) e l’art. 29, comma 3° bis (applicabile in caso di pseudo-appalto “stipulato in violazione” di legge) prevedono che il lavoratore somministrato possa chiedere, mediante ricorso giudiziale, notificato anche soltanto al soggetto che ne ha utilizzato la prestazione, “la costituzione di un rapporto di lavoro alle dipendenze di quest’ultimo, con effetto dall’inizio della somministrazione” (anche in tal caso, recependosi alcune delle conclusioni cui era giunta la giurisprudenza).
Peraltro, entrambe le ipotesi possono configurare ipotesi anche di interposizioni extra legem, aggravate dallo scopo elusivo, ossia “poste in essere con la specifica finalità di eludere norme inderogabili di legge o di contratto collettivo”, alle quali l’art. 29 riconnette, oltre che le sanzioni di cui all’art. 18, penali per le somministrazioni non autorizzate (comma 1°), ed amministrative per le somministrazioni irregolari (comma 3°), anche una ulteriore ammenda per ciascun lavoratore coinvolto e ciascun giorno di somministrazione; mentre, l’art. 18, comma 5° bis, prevede una ulteriore ammenda anche in caso di pseudo appalto.
E’ peraltro evidente che il punto tuttora più delicato continua a rimanere quello del discrimine tra ipotesi (non di somministrazione lecita ed illecita, intervenendo, sotto questo aspetto, la legge a precisare i casi e le modalità di una fornitura di manodopera “autorizzata” e “regolare”, bensì) di appalto “genuino” ed invece mera interposizione di manodopera (illecita in quanto non “legale” e – proprio perché mascherata da appalto fittizio – parimenti punita).
Anche sotto questo aspetto si ritiene che possano continuare a trovare applicazione, anche nel nuovo ordinamento, in sede applicativa dell’art. 29, comma 1°, del d.lg. 276/2003, i precedenti principi in merito all’individuazione dei criteri distintivi tra interposizione (vietata) ed appalto (lecito).
Se, in un sistema di divieto generale di interposizione di manodopera, la individuazione dei requisiti necessari ai fini della sussistenza di una fattispecie di appalto genuino costituisce al tempo stesso individuazione dell’area della liceità e confine e discrimine rispetto alla correlativa area della illiceità; in un sistema invece, caratterizzato dall’emersione alla dimensione della liceità della somministrazione di manodopera “legale”, l’individuazione di un appalto genuino non è di per sé immediatamente identificativo anche della liceità e di conseguenza della correlativa area di illiceità (risiedendo comunque, in quest’ultima, una sorta di “zona franca” di interposizione “legale”). Ma detto confine tra liceità ed illiceità non viene per così dire “spostato” a seguito dell’individuazione, nell’area così determinata, di ipotesi legali di interposizione di manodopera.
Pertanto, i criteri di riconoscimento di un appalto genuino al fine di distinguerlo da una ipotesi di mera interposizione di manodopera, sono ancora del tutto utili per individuare e sanzionare i casi di appalti fittizi e/o posti in essere con scopi solo elusivi.
Il trait d’union tra le due discipline, o – meglio – tra i due sistemi positivi succedutisi nel tempo, ha già avuto un primo positivo riscontro giurisprudenziale nella sentenza della Suprema Corte a Sezioni Unite n. 22910/2006, che – risolvendo un problema specifico (peraltro riferito alla l. 1369/1960 applicabile ratione temporis, ma da ritenersi, in virtù del parallelismo sopra enunciato, tuttora valido) circa le conseguenze della nullità del contratto tra appaltante ed appaltatore, che comporta che “solo sull’appaltante gravano gli obblighi retributivi e contributivi”, a seguito della novazione soggettiva del rapporto – ha avuto modo tuttavia di affermare che “anche nel nuovo sistema il superamento del principio generale di necessaria corrispondenza tra titolarità formale e sostanziale del rapporto di lavoro è tassativamente limitato ai casi ivi previsti, mentre, allorché si fuoriesca dai rigidi schemi voluti dal legislatore, si rientra in forme illecite di somministrazione di lavoro che continuano a essere assoggettate ai principi enunciati dalla giurisprudenza in tema di divieto di intermediazione di manodopera”
“A ben vedere la dissoluzione delle combinazioni negoziali poste in essere, come si è visto, attraverso l’intermediazione vietata e la sostituzione dell’imprenditore beneficiario all’intermediario non è che concreta espressione nella materia in oggetto della generale regola giuslavoristica secondo la quale in relazione ad identiche – anche per quanto attiene ai periodi temporali – prestazioni lavorative deve essere esclusa la configurabilità di due diversi datori di lavoro dovendosi considerare come parte datoriale solo colui su cui in concreto fa carico il rischio economico dell’impresa nonché l’organizzazione produttiva nella quale è di fatto inserito con carattere di subordinazione il lavoratore, e l’interesse soddisfatto in concreto dalle prestazioni di quest’ultimo, con la conseguenza che chi utilizza dette prestazioni deve adempiere tutte le obbligazioni a qualsiasi titolo nascenti dal rapporto di lavoro.
Per andare in contrario avviso non può sostenersi neanche che l’indicato principio di carattere generale ha perduto consistenza giuridica a seguito dell’entrata in vigore del D.Lgs. n. 267 del 2003. Detta disciplina – in un prospettiva di rinnovata rimodulazione delle relazioni industriali e del mercato del lavoro da perseguirsi anche mediante un accrescimento delle tipologie negoziali ha invero espressamente riconosciuto con la somministrazione del lavoro (art. 20 D.Lgs. cit.) – ed in certa misura anche con il distacco (art. 30 D.Lgs. cit.) – una dissociazione fra titolare e utilizzatore del rapporto lavorativo con una consequenziale disarticolazione e regolamentazione tra i due degli obblighi correlati alla prestazione lavorativa (cfr. al riguardo tra le altre norme del cit. D.Lgs. n. 267, artt. 21 e 26). La indicata disciplina, pur presentandosi come una innovazione – seppure rilevante per le implicazioni di carattere teorico sulla sistemazione dogmatica del rapporto lavorativo – si configura anche nell’attuale assetto normativo come una eccezione, non suscettibile né di applicazione analogica né di interpretazione estensiva, sicché allorquando si fuoriesca dai rigidi schemi voluti del legislatore per la suddetta disarticolazione si finisce per rientrare in forme illecite di somministrazione di lavoro come avviene in ipotesi di ‘somministrazione irregolare’ ex art. 27 cit., o di comando disposto in violazione di tutto quanto prescritto dall’art. 30 cit.; fattispecie che, giusta quanto sostenuto in dottrina, continuano ad essere assoggettate a quei principi enunciati in giurisprudenza in tema di divieto di intermediazione di manodopera”
(Cass., S.U., 26 ottobre 2006, n. 22910, RCDL, 2006, 4, 1176; D&G, 2006, 42, 13; OGL, 2006, 4, 833; GI, 2007, 7, 1647; RGL, 2007, 1, 23; GC, 2007, 1, 75; GDir, 2006, 44, 26; LG, 2007, 3, 271; OGL, 2007, 1, 92; RIDL, 2007, 2, 291).
Il principio – pare dire la Corte – è ancora quello del divieto generale di intermediazione di manodopera, ad eccezione delle ipotesi legali di somministrazione di lavoro.
Peraltro, il principio può essere forse più propriamente rovesciato (nel senso della odierna liceità della somministrazione di lavoro, ad eccezione delle ipotesi di somministrazioni non autorizzate, irregolari e fraudolente) senza che mutino gli effetti circa l’applicabilità delle conseguenze sanzionatorie e secondo i principi già enucleati dalla giurisprudenza, e validi per tutte le ipotesi extra-legem, compreso l’appalto fittizio che è illecito per il semplice fatto che configura in realtà una somministrazione non autorizzata.
La questione ha avuto rilevanza soprattutto in sede penale ove la giurisprudenza ha ritenuto che “la fattispecie di cui all’art. 1 l. 23 ottobre 1960 n. 1369 (esecuzione di prestazioni lavorative mediante impiego di manodopera assunta dall’appaltatore ma di fatto operante alle dipendenze del committente) resta punibile ai sensi dell’art. 18 d.lg. 10 settembre 2003, n. 276 (cosiddetta “riforma Biagi”), in quanto qualificabile come somministrazione di manodopera esercitata da soggetto non abilitato o fuori dei casi consentiti” (Cass. pen., sez. IV, 30 novembre 2005, n. 4454, CED, 2006, 233239); l’art. 18 ha quindi abrogato solo parzialmente il precedente reato di illecita interposizione di manodopera, per il resto ricorrendo l’ipotesi di una abrogatio sine abolizione, per la quale “i fatti di intermediazione non autorizzata commessi prima dell’entrata in vigore della vigente disciplina conservano rilievo penale” (Cass. pen., sez. III, 24 febbraio 2004, n. 25726, CP, 2005, 12, 4007).
Fuori, dunque, da dette ipotesi legali, occorre ancora discriminare in quali casi ci si trovi davanti ad una fattispecie di mera intermediazione di manodopera.
A tal fine, l’art. 29 del d.lg. 276/2003 conferma la distinzione fra appalto e somministrazione di lavoro già elaborata dalla giurisprudenza nel vigore della precedente disciplina.
“Ai fini della applicazione delle norme contenute nel presente titolo, il contratto di appalto, stipulato e regolamentato ai sensi dell’articolo 1655 del codice civile, si distingue dalla somministrazione di lavoro per la organizzazione dei mezzi necessari da parte dell’appaltatore, che può anche risultare, in relazione alle esigenze dell’opera o del servizio dedotti in contratto, dall’esercizio del potere organizzativo e direttivo nei confronti dei lavoratori utilizzati nell’appalto, nonché per la assunzione, da parte del medesimo appaltatore, del rischio d’impresa”.
(art. 29, comma 1°, del d.lg. 10 settembre 2003, n. 276).
Si fa innanzitutto riferimento ai due principi cardine della “organizzazione dei mezzi necessari da parte dell’imprenditore”, nonché della “assunzione del rischio di impresa”, ossia si fa riferimento alla natura imprenditoriale della prestazione dedotta in contratto.
In sostanza, la questione cruciale è sempre la stessa: un appalto genuino – rispetto a uno pseudo appalto, ad un appalto fittizio mascherante in realtà una mera interposizione di manodopera – si ha “se il fornitore dell’opera o del servizio operi o no, nel rapporto con il committente, come vero imprenditore; dalla risposta positiva o negativa su questo punto, e soltanto da essa, dipende la configurabilità del contratto fra i due soggetti come appalto legittimo, o come rapporto interpositorio vietato” (Ichino 2000, 425).
L’art. 29 aggiunge peraltro al primo binomio (organizzazione dei mezzi) una precisazione ulteriore, la cui ratio deve probabilmente ricercarsi nella particolarità del problema specifico affrontato (distinzione tra appalto e somministrazione di manodopera, ove le ipotesi “incerte” riguardano ovviamente appalti o pseudo appalti, specie di servizi, a prevalente impiego di manodopera, e poveri invece di mezzi, strumenti e capitali).
Si afferma quindi che il requisito della gestione imprenditoriale “può anche risultare [senza quindi esaurirne le ipotesi], in relazione alle esigenze dell’opera o del servizio dedotti in contratto, dall’esercizio del potere organizzativo e direttivo nei confronti dei lavoratori utilizzati nell’appalto”; disposizione che rappresenta una sorta di vera e propria “presunzione” di liceità dell’appalto, che fa il paio con quella che disponeva la vecchia disciplina in funzione però dell’illiceità dell’appalto, in ipotesi di impiego di mezzi forniti dall’appaltante (ex art. 1, comma 3°, l. 1369/1960).
Trattasi, in entrambe le previsioni, dell’assunzione a regole legali di spie o indicatori, tratti dalle realtà socio-economiche, rispettivamente significativi della valenza imprenditoriale o meno del rapporto instaurato tra le parti e quindi della liceità o meno del contratto di appalto stipulato.
Poiché la presunzione di illiceità è caduta (abrogata la l. 1369/1960), quest’ultima è stata ora sostituita dalla presunzione di liceità dell’art. 29 del d.lg. 276/2003, che peraltro fa proprie le conclusioni cui era giunta la giurisprudenza formatasi nella vigenza della precedente disciplina.
La giurisprudenza – in assenza di una definizione di interposizione di manodopera vietata – ha per lo più proceduto a contrario, individuando i tratti tipici dell’appalto lecito (disciplinato dagli abrogati artt. 3 e 5), e quindi ricercando le caratteristiche di “vero imprenditore” (con organizzazione dei mezzi ed assunzione di rischio) in capo all’interposto, infine accertando l’esistenza di uno pseudo-appalto in caso di esito negativo.
“L’appalto di mere prestazioni di lavoro, vietato ai sensi dell’art. 1 l. 23 ottobre 1960 n. 1369, costituisce una fattispecie complessa caratterizzata dalla presenza di un primo rapporto fra colui che conferisce l’incarico ed usufruisce in concreto delle prestazioni del lavoratore (appaltante, committente o interponente) e colui che riceve l’incarico e retribuisce il lavoratore (appaltatore, intermediario o interposto) e di un secondo rapporto fra l’intermediario ed il lavoratore; pertanto quest’ultimo per poter venir dichiarato dipendente del committente, ai sensi del comma ultimo del menzionato art. 1 l. n. 1369, ha l’onere di allegare e dimostrare innanzitutto l’esistenza del rapporto fra questi e l’asserito intermediario, e inoltre, alla stregua della presunzione assoluta stabilita dalla legge (impiego da parte dell’appaltatore di capitali, macchine o attrezzature fornite dall’appaltante) o in base alle normali regole di prova, che l’intermediario è un imprenditore solo apparente”
(Cass., sez. lav., 13 luglio 1998, n. 6860, MGC, 1998, 1521; AC, 1999, 57; RIDL, 1999, II, 259).
Spesso la giurisprudenza ha coniugato la presunzione di illiceità di cui all’abrogato art. 1, comma 3, con la fattispecie dell’appalto lecito da eseguirsi all’interno dell’impresa di cui all’abrogato art. 3.
Peraltro, quando nell’interposto faccia difetto l’impiego rilevante di mezzi strumentali e la prestazione consista in un servizio a carattere continuativo e materialmente nella mera attività lavorativa degli interposti, la giurisprudenza ha in gran parte dato rilievo al potere direttivo ed organizzativo dell’interposto sui lavoratori.
“La nozione di appalto di manodopera o di mere prestazioni di lavoro, vietato dall’art. 1 l. n. 1369 del 1960, in mancanza di una definizione normativa, va ricavata tenendo anche conto della previsione dell’art. 3 della stessa legge concernente l’appalto (lecito) di opere e servizi nell’interno dell’azienda con organizzazione e gestione propria dell’appaltatore; ne consegue che l’ipotesi di appalto di manodopera è configurabile sia in presenza degli elementi presuntivi considerati dal comma 3 del citato art. 1 (impiego di capitale, macchine ed attrezzature fornite dall’appaltante), sia quando il soggetto interposto manchi di una gestione d’impresa a proprio rischio e di un’autonoma organizzazione – da verificarsi con riguardo alle prestazioni in concreto affidategli – in particolare nel caso di attività esplicate all’interno dell’azienda appaltante, sempre che il presunto appaltatore non dia vita, in tale ambito, ad un’organizzazione lavorativa autonoma e non assuma, con la gestione dell’esecuzione e la responsabilità del risultato, il rischio d’impresa relativo al servizio fornito. La mancanza di un’autonoma organizzazione, nel caso di appalti con scarso apporto di mezzi materiali e capitali, si risolve nell’organizzazione del lavoro. In tale prospettiva è rilevante a chi siano subordinati i lavoratori”.
(Cass., sez. lav., 21 maggio 1998, n. 5087, RIDL, 1999, II, 252).
Peraltro, non basta che l’interposto eserciti il potere direttivo e organizzativo sui lavoratori. Occorre che la prestazione richieda almeno un patrimonio di esperienza e conoscenza tecnica e professionalità di non facile acquisizione, che l’appaltatore trasfonde attraverso la propria attività organizzativa e direttiva nell’attività svolta dai propri dipendenti operanti presso l’impresa committente.
“L’appaltatore proprietario del software e del know how che fornisce all’utilizzatore, oltre a tali beni immateriali anche il personale necessario per la fornitura del servizio richiesto, finisce con l’impiegare macchine ed attrezzature (in tal caso informatiche) appartenenti all’appaltante, tuttavia tali beni non vengono utilizzati direttamente per la produzione del servizio che essi possono fornire, ma quali strumenti che, con l’applicazione di particolare tecniche o programmi apportati dall’appaltatore, producono un servizio diverso e più ampio. Pertanto un appalto del genere non può incorrere nelle sanzioni previste dalla l. 23 ottobre 1960 n. 1369 stante l’apporto di beni immateriali di notevole valore (il software, il know how) assolutamente indispensabili al raggiungimento del risultato economico che si è proposto il committente”.
(Cass., S.U., 19 ottobre 1990, n. 10183, FI, 1992, I, 523).
Tale conclusione può ben ritenersi tuttora valida anche in applicazione della nuova disciplina e di quanto specificato nell’art. 29 del d.lg. 276/2003 (per alcune prime applicazioni, T.A.R. Piemonte, sez. II, 27 giugno 2006, n. 2711, LPA, 2006, 2, 343, che, in applicazione del criterio dell’esercizio de potere organizzativo e direttivo sui lavoratori esercitato dal committente, con corrispettivo del servizio parametrato essenzialmente al costo del lavoro, ha ritenuto sussistente una ipotesi di somministrazione non autorizzata ed ha ritenuto illegittimo un bando finalizzato all’affidamento di servizi infermieristici in favore di una azienda sanitaria, per la parte in cui non limitava la gara alle agenzie appositamente autorizzate; Tribunale Novara, 13 marzo 2007, Corriere del merito, 2007, 7, 835, che ha invece individuato un appalto nella fornitura di personale “qualificato” con organizzazione e gestione autonoma del servizio e senza interventi dispositivi e di controllo del committente).